sabato 3 marzo 2012

Il mio dono più grande






CAPITOLO 1



<<Una finestra aperta sull’invisibile…>>



Sono sempre stato un buon osservatore. Forse perché prevenire le intenzioni degli altri, prima ancora che potessero agire, è sempre stato il modo migliore per nascondere me stesso. Per ritirarmi nell’ombra ed essere semplicemente invisibile. Un muto spettatore del mondo. Uno che non partecipa.

È stato così fin dall’inizio, fin dalla prima volta. Uno dei miei primi ricordi.

Mi ero infilato dietro una tenda. Una tenda pesante, rossa, come il sangue. E densa. Non ricordo bene che periodo fosse. Ma ho ancora in mente quelle grida confuse. Due donne. Una in lacrime, l’altra furiosa. Mia madre e mia nonna. E non riuscivo a capire chi delle due fosse chi o che cosa. Avevo paura. Quella paura intensa e morbosa che nasce da dentro e che non sai bene da cosa derivi perché in fondo non te ne rendi conto, non pensi, non ragioni. Sei piccolo. Il tuo mondo inizia e finisce con te.

Non capivo perché gridassero, perché la nonna fosse così irritata. Non mi aveva nemmeno mai visto. E continuava a non vedermi. Perché ero invisibile, chino su me stesso, rannicchiato con entrambe le braccia sopra la testa? Pensavo che se non le vedevo io, forse nemmeno loro vedevano me. Ma poi, alla fine, che senso poteva avere? Che ci fossi o meno, avrebbero continuato a litigare.

Mia nonna mi considerava uno stupido perché non parlavo. Mia madre…beh…lasciamo perdere…diciamo che il mio nascondiglio era ben azzeccato e che il mio potere era immenso. Grande. Come il cielo.

Mi sentivo al sicuro lì dietro. Al sicuro da me stesso e dagli altri. Chiunque fossimo. Era il mio piccolo mondo. E non mi aspettavo che qualcuno potesse volerci entrare. Non lo volevo.

Invece accadde. Rapido, invisibile. Come uno spettro.

Entrò sotto forma di macchinina. Una micro machine blu metallizzata con le portiere arancioni. Poi un peluche, un orsacchiotto rosa con un grosso bavaglino sulla pancia. Profumava di fragola. Iniziò a parlarmi. A canticchiare con una voce bassa e alquanto buffa. Una voce quasi lontana, irraggiungibile.

Io mi ritrassi contro il muro, lo guardai un po’ sulle mie. L’orso tacque per un attimo, la macchinina mi guizzò via da sotto gli occhi, spinta da non so che cosa. Per un attimo ebbi quasi l’impressione che mi stessero prendendo in giro. Poi la tenda si sollevò per un istante. Comparve la luce e scomparve velocemente. Una presenza si era materializzata improvvisamente accanto a me. Una camicia bianca, un odore diverso dal mio, che non sapeva nemmeno di fragola. O di bambino.

Qualcuno era entrato nella mia bolla di sapone. Silenziosamente. O forse c’era sempre stato? Era sempre stato lì, immobile, quasi immateriale, in attesa che me ne accorgessi? Che finalmente gli concedessi tutta la mia attenzione? Non sapevo. Sembrava uno spirito, un folletto con i capelli gialli, un essere soprannaturale. Forse ancora più potente di me. Mi guardava. Mi sorrise. Poi alzò la mano e fece uno strano cenno.

Ciao.

Il segno dei bambini.

La linguaccia.

Lo vidi strabuzzare gli occhi ed inclinare la testa tutta da un lato. Sapevo che il mio mondo gli andava troppo stretto perché i suoi piedi erano parzialmente rimasti dall’altra parte, oltre la tenda. Ma anche così, senza piedi, sembrava comunque simpatico e gentile.

Tirò fuori dal nulla una tazza di latte. Non una tazza normale, ma la più bella che avessi mai visto. A forma di clown, con dei palloncini in mano e gli occhi a forma di stelline.

-Un dono grande per un grande dono- sussurrò e me la porse. E rimase lì a guardare, a spiare, con le ginocchia sotto il mento e le braccia strette al petto. Muovendosi appena muoveva la tenda. E respirava delicatamente, immettendo a tratti uno spiraglio di luce pallida nel mio antro nero.

-È buono Damien?-.

Sapeva il mio nome. Allora forse era vero che fosse rimasto sempre con me, altrimenti non avrebbe potuto chiamarmi così, non avrebbe potuto…vedere…io ero invisibile!!!

Gli restituii la tazza.

Lui scosse la testa e disse che era mia. Sapeva che la desideravo, che avrei voluto sempre tenerla con me. La mia tazza a forma di clown con dei palloncini in mano e gli occhi a forma di stelline. Era un tesoro grande. Era il mio tesoro? Cercai conferma. E lui disse si. Non lo disse veramente. Ma fu come se lo avesse detto davvero. Era mia. Solo mia. Me la strinsi al petto. Guardai l’orso e la macchinina. Era tutto mio? La risposta fu di nuovo si.

Non potevo crederci. Dei giocattoli che non dovevo dividere con nessuno, con cui potevo dormire, potevo mangiare, forse potevo anche farci il bagno.

-Vogliamo uscire da qui?-. Era un prezzo da pagare per averli? Lui scosse la testa: -Sai? Ho un po’ paura del buio, io-. Aveva un sorriso convincente. Quasi materno. Ma era un maschio, però. Un papà?

Uno zio.

Lo. Zio.

Jeremy, il fratello di mia madre. Era lui lo spettro penetrato nel mio mondo, o forse creatovi dentro, l’unico essere umano in grado di abbattere il mio muro dell’invisibilità e a scorgermi, ovunque fossi.

Mi offrì la propria mano e mi incoraggiò ad oltrepassare la tenda. Era calda, grande e anche un po’ sudata. Avvolse la mia come un contenitore perfetto. Poi mi abbracciò forte e mi portò al petto, divenendo lui, così, il mio scudo dell’invisibilità.

O forse una finestra dall’invisibilità.

Nessun commento:

Posta un commento