CAPITOLO 1
<<Una finestra aperta
sull’invisibile…>>
Sono sempre stato un buon osservatore. Forse perché
prevenire le intenzioni degli altri, prima ancora che potessero agire, è sempre
stato il modo migliore per nascondere me stesso. Per ritirarmi nell’ombra ed
essere semplicemente invisibile. Un muto spettatore del mondo. Uno che non
partecipa.
È stato così fin dall’inizio, fin dalla prima
volta. Uno dei miei primi ricordi.
Mi ero infilato dietro una tenda. Una tenda
pesante, rossa, come il sangue. E densa. Non ricordo bene che periodo fosse. Ma
ho ancora in mente quelle grida confuse. Due donne. Una in lacrime, l’altra
furiosa. Mia madre e mia nonna. E non riuscivo a capire chi delle due fosse chi
o che cosa. Avevo paura. Quella paura intensa e morbosa che nasce da dentro e
che non sai bene da cosa derivi perché in fondo non te ne rendi conto, non
pensi, non ragioni. Sei piccolo. Il tuo mondo inizia e finisce con te.
Non capivo perché gridassero, perché la nonna fosse
così irritata. Non mi aveva nemmeno mai visto. E continuava a non vedermi.
Perché ero invisibile, chino su me stesso, rannicchiato con entrambe le braccia
sopra la testa? Pensavo che se non le vedevo io, forse nemmeno loro vedevano
me. Ma poi, alla fine, che senso poteva avere? Che ci fossi o meno, avrebbero
continuato a litigare.
Mia nonna mi considerava uno stupido perché non
parlavo. Mia madre…beh…lasciamo perdere…diciamo che il mio nascondiglio era ben
azzeccato e che il mio potere era immenso. Grande. Come il cielo.
Mi sentivo al sicuro lì dietro. Al sicuro da me
stesso e dagli altri. Chiunque fossimo. Era il mio piccolo mondo. E non mi
aspettavo che qualcuno potesse volerci entrare. Non lo volevo.
Invece accadde. Rapido, invisibile. Come uno
spettro.
Entrò sotto forma di macchinina. Una micro machine blu metallizzata con le
portiere arancioni. Poi un peluche, un orsacchiotto rosa con un grosso bavaglino
sulla pancia. Profumava di fragola. Iniziò a parlarmi. A canticchiare con una
voce bassa e alquanto buffa. Una voce quasi lontana, irraggiungibile.
Io mi ritrassi contro il muro, lo guardai un po’
sulle mie. L’orso tacque per un attimo, la macchinina mi guizzò via da sotto
gli occhi, spinta da non so che cosa. Per un attimo ebbi quasi l’impressione
che mi stessero prendendo in giro. Poi la tenda si sollevò per un istante.
Comparve la luce e scomparve velocemente. Una presenza si era materializzata improvvisamente
accanto a me. Una camicia bianca, un odore diverso dal mio, che non sapeva
nemmeno di fragola. O di bambino.
Qualcuno era entrato nella mia bolla di sapone.
Silenziosamente. O forse c’era sempre stato? Era sempre stato lì, immobile,
quasi immateriale, in attesa che me ne accorgessi? Che finalmente gli
concedessi tutta la mia attenzione? Non sapevo. Sembrava uno spirito, un
folletto con i capelli gialli, un essere soprannaturale. Forse ancora più
potente di me. Mi guardava. Mi sorrise. Poi alzò la mano e fece uno strano
cenno.
Ciao.
Il segno dei bambini.
La linguaccia.
Lo vidi strabuzzare gli occhi ed inclinare la testa
tutta da un lato. Sapevo che il mio mondo gli andava troppo stretto perché i
suoi piedi erano parzialmente rimasti dall’altra parte, oltre la tenda. Ma
anche così, senza piedi, sembrava comunque simpatico e gentile.
Tirò fuori dal nulla una tazza di latte. Non una
tazza normale, ma la più bella che avessi mai visto. A forma di clown, con dei
palloncini in mano e gli occhi a forma di stelline.
-Un dono grande per un grande dono- sussurrò e me
la porse. E rimase lì a guardare, a spiare, con le ginocchia sotto il mento e
le braccia strette al petto. Muovendosi appena muoveva la tenda. E respirava
delicatamente, immettendo a tratti uno spiraglio di luce pallida nel mio antro
nero.
-È buono Damien?-.
Sapeva il mio nome. Allora forse era vero che fosse
rimasto sempre con me, altrimenti non avrebbe potuto chiamarmi così, non
avrebbe potuto…vedere…io ero invisibile!!!
Gli restituii la tazza.
Lui scosse la testa e disse che era mia. Sapeva che
la desideravo, che avrei voluto sempre tenerla con me. La mia tazza a forma di
clown con dei palloncini in mano e gli occhi a forma di stelline. Era un tesoro
grande. Era il mio tesoro? Cercai conferma. E lui disse si. Non lo disse
veramente. Ma fu come se lo avesse detto davvero. Era mia. Solo mia. Me la
strinsi al petto. Guardai l’orso e la macchinina. Era tutto mio? La risposta fu
di nuovo si.
Non potevo crederci. Dei giocattoli che non dovevo
dividere con nessuno, con cui potevo dormire, potevo mangiare, forse potevo
anche farci il bagno.
-Vogliamo uscire da qui?-. Era un prezzo da pagare
per averli? Lui scosse la testa: -Sai? Ho un po’ paura del buio, io-. Aveva un
sorriso convincente. Quasi materno. Ma era un maschio, però. Un papà?
Uno zio.
Lo. Zio.
Jeremy, il fratello di mia madre. Era lui lo
spettro penetrato nel mio mondo, o forse creatovi dentro, l’unico essere umano
in grado di abbattere il mio muro dell’invisibilità e a scorgermi, ovunque
fossi.
Mi offrì la propria mano e mi incoraggiò ad
oltrepassare la tenda. Era calda, grande e anche un po’ sudata. Avvolse la mia
come un contenitore perfetto. Poi mi abbracciò forte e mi portò al petto,
divenendo lui, così, il mio scudo dell’invisibilità.
O forse una finestra dall’invisibilità.
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