domenica 4 marzo 2012

Il mio dono più grande








CAPITOLO 2





A casa della nonna, in un angolo del salotto, tra la libreria dei classici ed un vecchio grammofono, c’era qualcosa che non avevo mai visto prima d’ora. Un oggetto strano, con una forma strana. Un oggetto che mia nonna usava come espositore per i suoi bonsai e per le rose del giardino, ma che un espositore non era davvero.

Avvicinandomi scorsi una serie di due colori alternarsi nella parte anteriore. Uno sgabello, sotto le gambe davanti, rivestito con un morbido cuscino di velluto rosso e oro. Lo zio lo tirò verso di me e mi ci mise in piedi sopra, poi mi guardò stupito, come se si aspettasse che dicessi qualcosa. Ma non aprii bocca.

-Ti piace?- mi sorrise e si sedette accanto a me. Mi cinse la vita con un braccio e mi fece sedere sulle sue gambe.

Io passavo con lo sguardo da lui allo strumento e viceversa, indeciso se tenermi per me la mia curiosità o cercare in qualche modo di condividerla. Quella cosa mi attirava da una parte e mi spaventava dall’altra. Era così grande, così misteriosa.

Mi sentii trasportare verso di essa e, senza pensare, allungai una mano per toccarla. La cosa gemette. Io mi spaventai e mi ritrassi.

Lo zio scoppiò a ridere.

-Lo sai che cos’è?- mi domandò. Io scossi la testa vigorosamente. Lui lo sapeva? Era bello quel tavolo, mi piaceva.  Ma avevo anche paura. Perché parlava?

Lo zio sorrise ancora e si chinò verso il mio orecchio: -Ora ti faccio vedere a che cosa serve- sussurrò lentamente, le sue labbra sfioravano delicatamente la pelle della mia guancia. Poggiò la mano destra sui tasti bianchi e li toccò alternativamente, senza un ordine preciso, producendo così una musichetta strana, che riconobbi subito: era la sigla di un cartone animato che avevo visto già, ma di cui non ricordo il titolo.

Non avrei mai pensato che un tavolo potesse suonare! Perché lo faceva? Guardai lo zio, poi ancora il tavolo e di nuovo lo zio. Volevo che lo facesse ancora, ma non osavo dirglielo. E se si fosse arrabbiato? Ma lo zio non si arrabbiava mai. Suonò ancora e lo fece senza che dicessi nulla.

-Bello, vero?- mugugnò, poi prese la mia mano tra la sua e tenendomi l’indice mi guidò a premere i tasti giusti. Il tavolo iniziò suonare anche con me, quasi obbedendo ad una volontà suprema. Era grandioso!

Ripetemmo la stessa musichetta di prima. Una volta, due, tre. Alla quarta la improntai da solo, istintivamente, mentre lui, distratto da mia madre e da mia nonna, guardava indietro, verso di loro. Non se ne accorse e non disse nulla. Il suo volto si era fatto scuro e teso.

Mamma e nonna avevano ripreso a litigare, più aggressivamente di prima. Le loro voci provenivano dall’altra parte della casa ed erano molto alte ed aggressive. Mi spaventavano. Io non capivo. Perché i grandi gridavano sempre? Mi sentii sollevare e rimettere in piedi sopra lo sgabello del pianoforte.

-Torno subito, piccolo-.

Lo zio mi baciò sui capelli, poi si allontanò per un istante da me. Forse anche lui aveva paura. Ma perché allora mi lasciava lì?

Non volevo.

No.

Non poteva abbandonarmi così.

Mi sentii sprofondare nell’angoscia. Ero solo. E il pianoforte non suonava più. Provai ad improntare di nuovo la musichetta dello zio, per consolarmi, forse sperando che questo richiamasse l’attenzione degli altri, ma suonò distorta, quasi macabra, in un modo terribile e spaventoso.

Mi allontanai di scatto e per poco non caddi all’indietro.

Che potevo fare?

Forse sarebbe tornato tutto a posto da solo, automaticamente. Forse. Ma che significava esattamente “tutto a posto”? E quando le cose stavano davvero “a posto”? Mamma e nonna continuavano a litigare, sembravano non averne mai abbastanza ed erano arrabbiate. Si urlavano addosso, si insultavano, sbraitavano e piangevano contemporaneamente, potevo sentirle dal salotto. Per che cosa discutevano poi? Mia madre voleva partire in tournée con un gruppo rock emergente, il gruppo del suo nuovo ragazzo, lasciando me a casa dalla nonna. Quindi era colpa mia?

Cercai lo zio con lo sguardo. Forse lui sapeva cosa fare, forse lui sapeva come farle smettere. Lui era…”bravo”, si. Più “bravo” di me. Però non c’era. Non c’era nessuno. Così scesi dallo sgabello e mi avventurai verso la stanza da dove provenivano le voci. Mi intrufolai dietro la porta senza fare rumore, nella speranza che accorgendosi di me avessero smesso, nella speranza che capissero che volevo mettere le cose a posto. Ma ebbi improvvisamente paura e mi nascosi dietro la tenda.

Mamma singhiozzava e sembrava sfinita. Prese una sedia e si accasciò su di essa come dopo una lunga giornata di lavoro e poggiò la fronte sulle mani.

-Che devo fare?- frignò, alzando le braccia e riabbassandole quasi subito. Io mi nascosi ancora di più dietro alla tenda. Quando diceva quella cosa sembrava sempre cattiva, come quando mi guardava male, quando facevo qualche marachella, e mi chiedeva che cosa avrebbe dovuto fare con me. Poi mi sculacciava.

-È un’occasione che capita una sola volta nella vita!-.

-Dallo in adozione se vuoi fare la troia in giro!- le gridò contro la nonna -È un bel bambino, con un po’ di fortuna gli troveranno subito una famiglia-.

Così era questo che pensava la nonna di me: le sembravo un bel bambino. Ma non mi guardava. Non lo aveva mai fatto. Sbraitava agitando le mani e muovendosi a scatti. Faceva su e giù nella stanza. Mi terrorizzava. Ma non mi guardava.

-Darlo in adozione?- mia madre sembrava non capire. Fissava il vuoto davanti a sé e si asciugava le lacrime con l’orlo della gonna. Pensava davvero che partire con il gruppo sarebbe stata la cosa migliore per lei, avrebbero potuto sfondare nel mondo della musica. Ma la nonna era scettica al riguardo. Disse che non si poteva vivere di sola musica e, facendolo, si arrabbiò ancora di più. Pensava forse che si sarebbe presa cura lei di me? Ero un bastardo. Se c’era qualcuno che avrebbe dovuto badarmi avrebbe dovuto essere mio padre. Ma mio padre non c’era. Non c’era mai stato. Era un fantasma. Uno mai esistito.

Continuarono ad alzare la voce e la paura dentro di me crebbe a dismisura. Mi rannicchiai ancora di più nel mio piccolo mondo immaginario e mi tappai le orecchie, iniziando a dondolare avanti e indietro. Le emozioni sono sempre state un problema per me. Troppo intense. Troppo soffocanti.

Che significava bastardo? Mi chiesi. Che ero cattivo? Che era colpa mia? Avevo sentito pronunciare quella parola sempre verso qualcuno che aveva commesso una qualche cattiveria. Avevo fatto qualcosa di sbagliato anche io?

Mi avrebbero abbandonato, lo sentivo. Tutti lo avrebbero fatto, perché non meritavo il loro affetto, perché non ero nulla di buono e perché ero cattivo. Per questo mamma voleva lasciarmi con nonna e nonna non mi voleva. Io ero un bastardo.

O quasi.

-Danny?- la voce si intrufolò di nuovo nel mio mondo dell’invisibilità. Mi voltai e lo ritrovai di nuovo accanto a me.

Lo zio era tornato. Per me?

-Che ci fai di nuovo qui, piccoletto?- sorrideva. Sorrideva sempre e, quando lo faceva, la sua espressione diventava bella, rassicurante e accogliente. Allungò le braccia verso di me e mi attirò al petto, coprendomi subito la testa con la sua mano enorme. Sapeva che avevo paura e cercò di consolarmi. Io non parlavo, non potevo chiedergli come mettere a posto le cose, ma ci scambiammo un’occhiata e quella fu sufficiente. Fu come se mi avesse fatto una promessa.

-Adesso sistemiamo tutto-.

Poi mi baciò e mi coccolò per un po’ dietro alla tenda, al sicuro, nel nostro mondo immaginario.



<<Io ti chiesi perché i tuoi occhi
si soffermano nei miei

come una casta stella del cielo
in un oscuro flutto.
Mi hai guardato a lungo
come si saggia un bimbo con lo sguardo,
mi hai detto poi, con gentilezza:
ti voglio bene, perché sei tanto triste.>>



(Hermann Hesse)

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