CAPITOLO 2
A casa della nonna, in un angolo del salotto, tra
la libreria dei classici ed un vecchio grammofono, c’era qualcosa che non avevo
mai visto prima d’ora. Un oggetto strano, con una forma strana. Un oggetto che
mia nonna usava come espositore per i suoi bonsai e per le rose del giardino,
ma che un espositore non era davvero.
Avvicinandomi scorsi una serie di due colori
alternarsi nella parte anteriore. Uno sgabello, sotto le gambe davanti,
rivestito con un morbido cuscino di velluto rosso e oro. Lo zio lo tirò verso
di me e mi ci mise in piedi sopra, poi mi guardò stupito, come se si aspettasse
che dicessi qualcosa. Ma non aprii bocca.
-Ti piace?- mi sorrise e si sedette accanto a me.
Mi cinse la vita con un braccio e mi fece sedere sulle sue gambe.
Io passavo con lo sguardo da lui allo strumento e
viceversa, indeciso se tenermi per me la mia curiosità o cercare in qualche
modo di condividerla. Quella cosa mi attirava da una parte e mi spaventava
dall’altra. Era così grande, così misteriosa.
Mi sentii trasportare verso di essa e, senza
pensare, allungai una mano per toccarla. La cosa gemette. Io mi spaventai e mi
ritrassi.
Lo zio scoppiò a ridere.
-Lo sai che cos’è?- mi domandò. Io scossi la testa
vigorosamente. Lui lo sapeva? Era bello quel tavolo, mi piaceva. Ma avevo anche paura. Perché parlava?
Lo zio sorrise ancora e si chinò verso il mio
orecchio: -Ora ti faccio vedere a che cosa serve- sussurrò lentamente, le sue
labbra sfioravano delicatamente la pelle della mia guancia. Poggiò la mano
destra sui tasti bianchi e li toccò alternativamente, senza un ordine preciso,
producendo così una musichetta strana, che riconobbi subito: era la sigla di un
cartone animato che avevo visto già, ma di cui non ricordo il titolo.
Non avrei mai pensato che un tavolo potesse
suonare! Perché lo faceva? Guardai lo zio, poi ancora il tavolo e di nuovo lo
zio. Volevo che lo facesse ancora, ma non osavo dirglielo. E se si fosse
arrabbiato? Ma lo zio non si arrabbiava mai. Suonò ancora e lo fece senza che
dicessi nulla.
-Bello, vero?- mugugnò, poi prese la mia mano tra
la sua e tenendomi l’indice mi guidò a premere i tasti giusti. Il tavolo iniziò
suonare anche con me, quasi obbedendo ad una volontà suprema. Era grandioso!
Ripetemmo la stessa musichetta di prima. Una volta,
due, tre. Alla quarta la improntai da solo, istintivamente, mentre lui, distratto
da mia madre e da mia nonna, guardava indietro, verso di loro. Non se ne
accorse e non disse nulla. Il suo volto si era fatto scuro e teso.
Mamma e nonna avevano ripreso a litigare, più
aggressivamente di prima. Le loro voci provenivano dall’altra parte della casa
ed erano molto alte ed aggressive. Mi spaventavano. Io non capivo. Perché i
grandi gridavano sempre? Mi sentii sollevare e rimettere in piedi sopra lo
sgabello del pianoforte.
-Torno subito, piccolo-.
Lo zio mi baciò sui capelli, poi si allontanò per
un istante da me. Forse anche lui aveva paura. Ma perché allora mi lasciava lì?
Non volevo.
No.
Non poteva abbandonarmi così.
Mi sentii sprofondare nell’angoscia. Ero solo. E il
pianoforte non suonava più. Provai ad improntare di nuovo la musichetta dello
zio, per consolarmi, forse sperando che questo richiamasse l’attenzione degli
altri, ma suonò distorta, quasi macabra, in un modo terribile e spaventoso.
Mi allontanai di scatto e per poco non caddi
all’indietro.
Che potevo fare?
Forse sarebbe tornato tutto a posto da solo,
automaticamente. Forse. Ma che significava esattamente “tutto a posto”? E
quando le cose stavano davvero “a posto”? Mamma e nonna continuavano a
litigare, sembravano non averne mai abbastanza ed erano arrabbiate. Si urlavano
addosso, si insultavano, sbraitavano e piangevano contemporaneamente, potevo
sentirle dal salotto. Per che cosa discutevano poi? Mia madre voleva partire in
tournée con un gruppo rock emergente, il gruppo del suo nuovo ragazzo,
lasciando me a casa dalla nonna. Quindi era colpa mia?
Cercai lo zio con lo sguardo. Forse lui sapeva cosa
fare, forse lui sapeva come farle smettere. Lui era…”bravo”, si. Più “bravo” di
me. Però non c’era. Non c’era nessuno. Così scesi dallo sgabello e mi
avventurai verso la stanza da dove provenivano le voci. Mi intrufolai dietro la
porta senza fare rumore, nella speranza che accorgendosi di me avessero smesso,
nella speranza che capissero che volevo mettere le cose a posto. Ma ebbi
improvvisamente paura e mi nascosi dietro la tenda.
Mamma singhiozzava e sembrava sfinita. Prese una
sedia e si accasciò su di essa come dopo una lunga giornata di lavoro e poggiò
la fronte sulle mani.
-Che devo fare?- frignò, alzando le braccia e
riabbassandole quasi subito. Io mi nascosi ancora di più dietro alla tenda.
Quando diceva quella cosa sembrava sempre cattiva, come quando mi guardava
male, quando facevo qualche marachella, e mi chiedeva che cosa avrebbe dovuto
fare con me. Poi mi sculacciava.
-È un’occasione che capita una sola volta nella vita!-.
-Dallo in adozione se vuoi fare la troia in giro!-
le gridò contro la nonna -È un bel bambino, con un po’ di fortuna gli
troveranno subito una famiglia-.
Così era questo che pensava la nonna di me: le
sembravo un bel bambino. Ma non mi guardava. Non lo aveva mai fatto. Sbraitava
agitando le mani e muovendosi a scatti. Faceva su e giù nella stanza. Mi
terrorizzava. Ma non mi guardava.
-Darlo in adozione?- mia madre sembrava non capire.
Fissava il vuoto davanti a sé e si asciugava le lacrime con l’orlo della gonna.
Pensava davvero che partire con il gruppo sarebbe stata la cosa migliore per
lei, avrebbero potuto sfondare nel mondo della musica. Ma la nonna era scettica
al riguardo. Disse che non si poteva vivere di sola musica e, facendolo, si
arrabbiò ancora di più. Pensava forse che si sarebbe presa cura lei di me? Ero
un bastardo. Se c’era qualcuno che avrebbe dovuto badarmi avrebbe dovuto essere
mio padre. Ma mio padre non c’era. Non c’era mai stato. Era un fantasma. Uno
mai esistito.
Continuarono ad alzare la voce e la paura dentro di
me crebbe a dismisura. Mi rannicchiai ancora di più nel mio piccolo mondo
immaginario e mi tappai le orecchie, iniziando a dondolare avanti e indietro.
Le emozioni sono sempre state un problema per me. Troppo intense. Troppo
soffocanti.
Che significava bastardo? Mi chiesi. Che ero
cattivo? Che era colpa mia? Avevo sentito pronunciare quella parola sempre
verso qualcuno che aveva commesso una qualche cattiveria. Avevo fatto qualcosa
di sbagliato anche io?
Mi avrebbero abbandonato, lo sentivo. Tutti lo
avrebbero fatto, perché non meritavo il loro affetto, perché non ero nulla di
buono e perché ero cattivo. Per questo mamma voleva lasciarmi con nonna e nonna
non mi voleva. Io ero un bastardo.
O quasi.
-Danny?- la voce si intrufolò di nuovo nel mio
mondo dell’invisibilità. Mi voltai e lo ritrovai di nuovo accanto a me.
Lo zio era tornato. Per me?
-Che ci fai di nuovo qui, piccoletto?- sorrideva.
Sorrideva sempre e, quando lo faceva, la sua espressione diventava bella, rassicurante
e accogliente. Allungò le braccia verso di me e mi attirò al petto, coprendomi
subito la testa con la sua mano enorme. Sapeva che avevo paura e cercò di
consolarmi. Io non parlavo, non potevo chiedergli come mettere a posto le cose,
ma ci scambiammo un’occhiata e quella fu sufficiente. Fu come se mi avesse
fatto una promessa.
-Adesso sistemiamo tutto-.
Poi mi baciò e mi coccolò per un po’ dietro alla
tenda, al sicuro, nel nostro mondo immaginario.
<<Io ti chiesi
perché i tuoi occhi
si soffermano nei miei
come una casta stella del cielo
in un oscuro flutto.
Mi hai guardato a lungo
come si saggia un bimbo con lo sguardo,
mi hai detto poi, con gentilezza:
ti voglio bene, perché sei tanto triste.>>
si soffermano nei miei
come una casta stella del cielo
in un oscuro flutto.
Mi hai guardato a lungo
come si saggia un bimbo con lo sguardo,
mi hai detto poi, con gentilezza:
ti voglio bene, perché sei tanto triste.>>
(Hermann
Hesse)
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