sabato 3 marzo 2012

Il mio dono più grande


PARTE PRIMA:


"Borderline,
sulla linea di confine”



Una seconda opportunità…


Nell’incredibile scenario della mia vita poche sono le cose che ormai hanno il potere di stupirmi. Tra queste, un ricordo, un’immagine sfocata di una donna che spesso ricorre nei miei sogni e di cui io non ho nessun altra esperienza se non nell’immaginazione e nella foschia dorata che m’invade quando chiudo gli occhi. Accanto a lei, oltre le mie palpebre, ci sono una vecchia altalena dalla vernice gialla scrostata ed un bambino piccolo. Mi sorride, agita le braccia nella mia direzione come se in me riconoscesse qualcosa di familiare o vagamente conosciuto, poi mi corre incontro e si agita affinché io possa seguirlo e spingerlo sull’altalena. Ma io resto fermo, immobile, pietrificato all’esterno della bolla che ricopre il paesaggio, faccio parte di un’impalcatura fissa che non partecipa mai nulla. Nella mia testa non c’è più niente, solo il vuoto che mi circonda e che rende impenetrabile ogni minima sfaccettatura del mio essere e della mia sostanza.

Il bambino piange. Io cerco di tranquillizzarlo, gli chiedo di non scoraggiarsi, di ricacciare indietro le lacrime, ma anche le mie parole lentamente si perdono nello spazio infinito che c’è tra di noi. Allora desidero di raggiungerlo, di muovermi anche io per avvicinarlo e rabbonirlo, ma improvvisamente mi rendo conto che c’è qualcosa, dietro di me, che mi trattiene. Centinaia e centinaia di braccia rigide e fredde mi tengono stretto, ancorato all’impalcatura del mio sogno e non mi permettono di penetrarvi.

La donna si volta e prende a fissarmi.

Ed io mi agito, faccio di tutto per liberarmi, ma le braccia mi stringono ancora più forte, mi graffiano, mi tirano indietro verso un universo oscuro e malvagio da cui invano tento di sottrarmi, poi, lentamente, mi prendono lo stomaco e mi sento soffocare. Reprimo un grido, mi getto a terra. Davanti ai miei occhi, anche il bambino mi guarda spaventato, incuriosito, anche lui inerme, bloccato da un vetro invisibile. Vuole aiutarmi, vorrebbe farlo, ma non può. Guardo la donna, lei mi sorride incoraggiante. “Portalo via” urlo allora “portalo via”, poi tutto intorno a noi comincia a vorticare frenetico, una realtà stroboscopica che ruota nella mia mente e mi confonde.

Cala il buio.

Il bambino resta lì, continua a guardarmi, a fissarmi terrorizzato. Anche io sono terrorizzato e nei suoi occhi scorgo di rimando l’espressione dei miei occhi. “Vattene, vattene via…”, ma lui non si sposta. Nemmeno la donna lo fa, continua a sorridermi, continua ad osservarmi con tenera sincerità. Resta immobile, spettatrice del mio incubo, quasi come se il mio sogno si fosse trasformato nel sogno di qualcun altro e quello che credevo di vedere fosse in realtà soltanto il riflesso di quello che l’altro vedeva.

Mi sento sprofondare, sotto le mie gambe, il terreno si fa di fuoco e piano piano crolla, trascinandomi in basso con sé, dolcemente verso l’oblio. Cado nel vuoto, l’impalcatura si fa via via più rigida. Le braccia che mi trattengono iniziano a ferirmi. Urlo di nuovo. Nessuno può sentirmi. Nemmeno io riesco a scorgere nell’acuto mormorio del silenzio il suono stridulo della mia voce.

Sento gli occhi bruciare, le palpebre pesanti e nella bocca il sapore di sale. Continuo a cadere nel vuoto, le pareti del sogno continuano a vorticare rosse, gialle, verdi e blu. E cambiano, cambiano in continuazione forma ed intensità. Intorno a me inizio a vedere fantasmi di una vita che non mi sento più appartenere. Chi siete? Grido. Che cosa volete? Ma anche loro non mi sentono.

La morsa che mi soffoca mi stringe in un abbraccio spietato. Divincolarsi ormai è inutile e, mentre la donna ed il bambino divengono sempre più evanescente nell’irrealtà dell’incubo, dal sogno passo velocemente all’irreale realtà della mia vita.

E mi sveglio con il viso affondato nel cuscino.

Sconcertato, mi siedo velocemente sul letto. Mi guardo intorno. Ho come la sensazione che il mio corpo non riesca più a reagire alla mia volontà. Provo a mettermi in piedi, ma vengo assalito dalle vertigini e crollo in ginocchio sul tappeto. Come nel mio sogno. Di nuovo.

Lentamente poi, inizio a riconoscere i tratti più singolari e marcati della mia stanza. La scrivania con il computer, gli scaffali pieni di libri, l’armadio di compensato colorato poco distante dalla finestra.

Sono a casa. La mia nuova casa.

Mi tocco il viso e lo sento bagnato. Allora mi alzo lentamente e lentamente mi trascino verso il bagno, i piedi nudi che lasciano tracce sudate sul pavimento sotto di me. Busso piano, poi apro la porta e mi intrufolo dentro. Mi sento un fuggiasco, un ladro che penetra delicatamente in una casa e non sa in quale stanza recarsi. Mi avvicino al lavandino, mi appoggio su di esso facendo leva sulle braccia nude. Alzo gli occhi sullo specchio enorme davanti a me. Gli specchi mi mettono paura. Mi mettono in contatto con una parte di me che non mi piace, che voglio dimenticare.

Il vuoto del mio sguardo è la prima cosa che noto. Poi, il pallore del mio viso affiora delicatamente sulla superficie levigata. Non ho pianto. Sono solo sudato.

Il mio rapporto con l’estraneo che vedo dura molto poco. Non conosco quella persona. Non sono io e non riesco a fissarla per più di qualche istante. Allora, i muscoli del collo si rilassano ed il mento cade in avanti, verso il petto.

Apro il rubinetto dell’acqua fredda e bevo qualche sorso.

Alle mie spalle inizio ad avvertire il rumore sordo dei passi. Qualcuno si sta avvicinando.

Infilo quindi la testa sotto il getto fresco e mi bagno i capelli. Sono lunghi e non dovrei farlo, ma la sensazione della testa bagnata mi piace e non voglio farne a meno.

Il rumore di passi viene inghiottito da quello dell’acqua che scorre sulle mie orecchie. Qualcuno bussa alla porta. Mi raddrizzo e chiudo il rubinetto. Di nuovo, per una frazione di secondo, incrocio lo sguardo con l’estraneo fugace dall’altra parte del vetro, poi chiudo gli occhi e li riapro solo quando la mia mano è posata sulla maniglia della porta.

La apro.

Gli occhi preoccupati di Catherine scorrono velocemente sulla mia espressione, poi rovinano inevitabilmente sulle cicatrici che mi ricoprono le braccia. Le porto dietro la schiena per non darle maggiore imbarazzo. Mi sento arrossire.

-Tutto bene?- mi guarda con apprensione, con le pupille che si dilatano velocemente e le palpebre che sbattono per eliminare dalle ciglia gli ultimi residui del sonno che, con ogni probabilità, ho interrotto.

Ricambio la sua inquietudine con un sorriso. Poi annuisco: -Benone- le sussurro ed immediatamente la sua espressione si fa più distesa e rilassata, come se le avessi tolto un grosso peso dalle spalle.

Catherine è una donna meravigliosa. Si è offerta di accogliermi nella sua famiglia quando mi hanno dimesso dall’istituto e, da allora, non ha fatto altro che prendersi cura di me, viziandomi come un figlio ritrovato da poco e volendomi bene come pochi altri prima mi avevano voluto bene.

Finalmente mi sorride, lo stesso incoraggiante sorriso della donna nel mio sogno, ed allunga una mano verso il mio viso per accarezzarmi. Ma mi ritraggo. Un riflesso autonomo.

-Mi dispiace- la sento mormorare.

È delusa. Forse amareggiata.

Io mi sento un verme. Butto lì un “non importa” e scappo via,  verso la cucina, gli occhi bassi, rivolti al pavimento, nel tentativo di attenuare la rabbia che mi monta dentro.

Sbalzi d’umore: sono una componente innata della mia personalità. Ma ci sto lavorando.

Arrivo al tavolo e mi metto seduto. Cerco di tenere a bada il mio respiro e l’ansia crescente che mi assale. È in momenti come questi che sento ancora l’esigenza di farmi del male, di punirmi per il mio modo di comportarmi, per l’assurdo modo in cui liquido le persone, lasciandole così, come pesci imbalsamati davanti alle porte. Ma devo resistere. Stringere i denti e tenere duro. Di solito, se mi concentro abbastanza a lungo, sono in grado di dominare questi impulsi, ma ogni tanto vengo assalito dall’incredibile desiderio di mettermi a gridare, a strappare via qualunque sensazione possibile ed immaginabile. Ho bisogno di dolore. La mia vita se ne è impregnata talmente tanto e talmente a lungo da non poterne più fare a meno. È come tornare…a “casa”…

Chiudo gli occhi. Per un istante ho di nuovo l’impressione di rivedere la donna del mio sogno, ma è una sensazione fulminea che mi attraversa il cervello e subito scompare. Sospiro. Le mani mi formicolano e la pelle sembra tirare. Prendo un bel respiro e rimango in apnea per qualche secondo, concentrandomi sull’assenza di ossigeno in modo tale da far passare in secondo piano l’orribile desiderio di autolesionarmi che mi aggredisce. Poi espiro e ricomincio da capo.

Mentre resto senza fiato conto. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei…mi piacerebbe prendere delle lezioni di nuoto ed imparare a starmene sott’acqua per un periodo relativamente lungo. Mi fa sentire in pace. Sereno. Quando vivevo ancora con mio zio, spesso, facendomi il bagno, infilavo la testa nell’acqua e contavo il tempo che passava prima che i polmoni iniziassero a bruciare per il bisogno d’aria ed il mio corpo m’implorasse di riemergere e respirare. Ma non è lo stesso.

Inizio a rilassarmi. Rallento le apnee. Quando resto in questa posizione e respiro profondamente, ho quasi la sensazione che i miei sensi si acuiscano. I suoni, gli odori che provengono dall’esterno, sembrano quasi provenire da luoghi lontani, sconosciuti e non semplicemente dalla stanza in cui mi trovo, ed io mi diverto ad elaborarli come se questo fosse realmente possibile, come se in questo momento fossi in grado di percepire il rumore dell’erba che cresce nel prato del vicino o l’odore del tè che bolle in una pentola dall’altra parte del mondo. È così che, lentamente, i brutti pensieri se ne vanno e scivolano via dalla mia testa. Ed io con loro, finalmente tranquillo.

Di nuovo, sono dei passi a riportarmi al mondo reale.

Catherine si libra delicatamente nella cucina, passandomi accanto con la leggiadria e la leggerezza di una ballerina per andare a preparare il caffè. Non c’è bisogno che alzi la testa o che apra gli occhi per sapere che c’è lei a poca distanza da me. Mi basta sentire il suo profumo per esserne certo. Lo riconoscerei fra mille al mondo. Ma continuo ancora a sentirmi in colpa, so che lei sta facendo di tutto per ignorarmi perché capisce il mio stato di crisi, e voglio rendermi utile. Così riemergo dalla mia quiescenza e mi allontano dal tavolo per darle una mano.

Mi sento inerme, solo contro un mondo di altre persone che non conosco e con cui non voglio incrociare lo sguardo. Non ho la forza di parlare. Intorno a me ci sono una lunga serie di emozioni inespresse e di termini impronunciabili che ruotano e ruotano e sembrano non fermarsi mai. È come in quel gioco con i cigni colorati che scorrono su un tappeto circolare e tu, con una canna da pesca, devi afferrarne quanti più possibile per il collo per ricevere un regalo. Io allungo la mia canna di plastica, ma nessun cigno abbocca mai e non vinco nulla.

Mi alzo sulla punta dei piedi ed apro un’anta della credenza sopra la mia testa. Prendo una tazza, poi un’altra e le porto al tavolo. Chiudo lo sportello. Le dispongo su due tovagliette variopinte e avvicino loro due tovaglioli e due cucchiai. Mentre lo faccio, dentro di me mi sforzo di afferrare i cigni e fonderli insieme nel tentativo di creare una frase sufficientemente convincente per scusarmi.

Catherine intanto ha messo delle brioche a scaldare nel microonde. Il loro profumo mi penetra nelle narici e m’infonde un po’ di coraggio.

Riesco a catturare un cigno giallo, poi uno rosa.

-Catherine, io…- ma non sono ancora abbastanza. Lei lascia perdere per un po’ la colazione e si volta nella mia direzione. Ha gli occhi allegri e le guance sollevate in uno dei sorrisi più belli che abbia mai visto. Mi guarda in attesa che io dica qualcosa. Si poggia al pensile dietro di sé ed incrocia le braccia poco sotto il petto prominente: -Si?- mi chiede e di nuovo mi sento arrossire. Le braccia perdono consistenza e cadono lungo i fianchi. Abbasso la testa ancora una volta: -Vuoi dirmi qualcosa Damien?-. Si, io…ma la canna di plastica ha perso il suo magnetismo. Nessun pupazzo si lascia afferrare. Il tappeto circolare velocizza ancora di più la sua andatura. Le parole si allontanano vorticose dalla mia testa.

Inizio a balbettare qualcosa. Dio, è così umiliante. Sento la lingua ingrossarsi e muoversi a fatica tra i denti: -I…io…volevo…- basta, non ci riesco. Mi affido alla sua clemenza. Chiudo gli occhi e, lentamente, vedo scorrere delle immagini confuse. Immagini di un’altra casa, di un’altra cucina. C’è una persona diversa davanti a me, anche quella mi guarda immobile con le braccia intrecciate all’altezza del petto. Mi sorride,dice  qualcosa che non sento. Poi mi avvicina e le sue mani scorrono sulle mie spalle, sulla schiena, mi abbraccia.

-Damien?-.

Mi scuoto, cerco di non pensare e torno alla realtà. Catherine ha cambiato posizione, si è avvicinata anche lei. Sento le sue mani posarsi dove avevo visto le altre mani posarsi. La sua fronte si appresta alla mia, si appoggia delicatamente sulle le mie sopracciglia: -Sicuro che ti senti bene?-.

Io scuoto la testa, cerco di ricacciare i ricordi di una vita passata nel dimenticatoio da cui troppo spesso emergono, alzo gli occhi sui suoi ed impronto un timido si.

-Sto bene-. Mi sforzo di sorriderle.

-Forse hai solo fame-.

Il microonde scampanella.

Le brioche hanno invaso la casa con il profumo di confettura calda. Catherine le tira fuori dal forno e mi fa cenno di sedermi accanto a lei. Le mette in un piatto e le porta al centro del tavolo. Poi afferra latte, caffè e succo di frutta e li pone tra di noi.

-La colazione è il pasto più importante della giornata- annuncia, quasi meccanicamente, sedendosi a qualche centimetro da me ed agguantando un tovagliolo per portarselo alle ginocchia. Da quando sono qui non c’è mai stato un singolo giorno in cui non l’abbia detto –Credo che non ci sia niente di meglio di un buon caffè e una brioche per rimettere insieme i connotati dopo una bella dormita-. Mi mette un cornetto alla marmellata davanti e mi versa della spremuta d’arancia nella tazza. La mia preferita.

Mangiamo in silenzio.
Poi, una volta finito, mi alzo e rimetto a posto le stoviglie che ho sporcato.

Nessun commento:

Posta un commento