Il mio dono più grande:
PROLOGO
Beh,
ecco...io...non so di preciso da dove iniziare, forse non dovrei neppure farlo:
cavolo la cosa non è neanche così urgente...
Avere
un buon inizio, dicono, è tutto per uno scrittore. Un buon titolo, una frase ad
effetto ed hai già tutta l'attenzione di cui hai bisogno. Ma io non sono uno
scrittore, non sono sicuro di poterlo essere, ed attirare l'attenzione è una
delle ultime cose che desidero. Mostrare chi sono, che cosa faccio con una
penna in mano e perché non è un lavoro facile.
Parlare
di se stessi, lo chiamano...
Fa
male.
Comporta
una grande fatica e il rischio di naufragare in fiumi di parole vane.
Io
non voglio perdermi in discorsi che considero già di per sé inutili. Mi sembra
uno spreco di tempo e di energia.
Sono
sempre vissuto nell'ombra. Ecco, quella si che è qualcosa che conosco. Potrei
dire di esser più capace nel descrivere tutte le varie sfumature di nero che un
oggetto può assumere di notte, piuttosto che parlare o scrivere della mia vita.
Eppure già dicendo questo ho iniziato a raccontare...
Che
cosa strana! Sembra che basti così poco, eppure...
Ma
no, lasciamo perdere...
Forse
non è il caso di continuare.
Questo
stupido diario è solo un'altra stupida idea. Che senso può avere poi? Non si
insegna ad un bambino a non temere il buio chiudendolo in un
armadio. Anche se non penso nemmeno che sia saggio lasciarlo dormire con
la luce accesa, fosse anche quella del corridoio dall'altra parte dell'appartamento.
La
continua presenza dei ricordi è la maledizione dell'essere umano. Per quanto si
possa ignorarli, per quanto loro possano ignorare te, sei costruito
intrecciando i loro fili con fili nuovi. E spesso, per colpa di tutto ciò, ti
ritrovi intrappolato in una ragnatela fatale, dalla quale è
difficile districarsi.
La
vedova nera che ti fissa è pronta a divorarti. E non sai se effettivamente
il ragno sia uno spettro di te stesso o di qualcun altro. E' lì. Vuole
mangiarti.
E
non puoi sottrarti.
Puoi
lottare, questo si. Ma le catene che avrai ai polsi saranno sempre più
dure da spezzare e la fuga diverrà una pura utopia.
Cercherai
allora di scendere a patti. Di nuovo non saprai con chi. Se te stesso o chi ti
è accanto. Avrai quasi l'impressione che i due fantasmi siano lo
stesso organismo, lo stesso mostro. E finirai con il non accettare più né l'uno
né l'altro.
Sarà
dura allora continuare a combattere. E gettare la spugna può divenire la
scelta più semplice e più facile.
Accettare
le zanne che affondano vivacemente nella tua carne, sentire le mandibole
masticare piano, il sangue che goccia lentamente dalla bocca.
La
tua?
La
sua?
Non
lo sai. Non lo saprai mai. Perché in fondo è questo il gioco della vita: una
grossa, smisurata forma di presa per i fondelli.
Allora
ti guardi allo specchio ed inizi a dubitare, a chiederti chi sei e che cosa ne
è stato di te.
Non
esisti più.
Poi
venite a dirmi che parlare di sé è semplice...
Non ho mai pensato granché a quelle che avrebbero
potuto essere le conseguenze. Il semplice “qui ed ora” per me andava benissimo
lo stesso.
Non mi sono mai fermato a guardare, soppesare, a
discutere. Anche solo chiedere aiuto in certi momenti mi sembrava un’impresa
talmente tanto irraggiungibile che accontentarsi di un “ottimo locale” era la
via migliore.
Purtroppo però quando ti lasci vivere, la pallina
che costituisce il tuo mondo finisce su un piano inclinato. E da lì a
raggiungere il fondo il viaggio è molto breve.
Vivere di illusioni. Ecco cosa ho cercato di fare.
Mi sono nascosto. Ho creato un universo completamente mio dove io, ed io
soltanto, potevo avere accesso. Un universo fatto di realtà distorte, di mostri
umani e cerchi sempre più stretti e soffocanti.
Odio quando mi sento dire che devo andare avanti,
cercare di combattere e lottare. Non sono un pavido, ma mi sembra così lontano
dalla mia portata. In realtà nessuno sa cosa significhi alzarsi la mattina ed
affrontare una sfida con se stessi anche solo per guardarsi allo specchio. Una
sfida già persa in partenza. E, allora, gareggiare e vincere che senso hanno?
L’ho fatto, certo. Arrendersi subito è da stupidi.
Ci ho provato. E ogni volta l’ostacolo da superare diveniva sempre più grande e
più difficile. Come un Everest irto di spine. Ho provato in ogni maniera. Con
ogni mezzo a mia disposizione. Ma è stato tutto inutile. E, mentre la mia
pallina amorfa scivolava sempre più sul suo piano inclinato, io precipitavo
nell’occhio del ciclone, sempre più a fondo nell’ultimo girone dei dannati.
Sempre più spaventato e più solo, perché nel buio è difficile distinguere chi
ti è accanto e, pur di evitare di incappare nell’incubo, si preferisce il
silenzio.
Il silenzio è la mia musica. Per anni ho provato a
ricercare l’effetto del suo suono sul mio pianoforte. Ma invano. Allora ho provato
a cercarlo per contrasto, opponendo al rumore di sottofondo della mia vita
altro rumore. Ma non è lo stesso. E ora lo so. Ora conosco il valore del suono
di una risata, di quelle che vengono dal cuore, dallo stesso luogo dove nascono
i sogni, quelli belli e caldi che ti dispiace abbandonare al mattino.
Ho scoperto che gli incubi possono nascondere al
loro interno un minimo di luce, un sottile bagliore celato, una stella
solitaria, nascosta dietro una fitta coltre di nubi scure e dense. Non sempre
siamo consapevoli di quella stella e, devo ammetterlo: la prima volta che la si
vede è quasi…destabilizzante. Però lei è lì. E attende. Attende che tu te ne
accorga, una volta per tutte.
Volendo la si potrebbe chiamare in molti modi
diversi, si dice che dare il nome ad un qualcosa significhi farla propria. Per
me è soltanto: luce.
Una parola semplice. Potente e calda.
Luce.
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