venerdì 2 marzo 2012

Il mio dono più grande

Il mio dono più grande:




PROLOGO

Beh, ecco...io...non so di preciso da dove iniziare, forse non dovrei neppure farlo: cavolo la cosa non è neanche così urgente...

Avere un buon inizio, dicono, è tutto per uno scrittore. Un buon titolo, una frase ad effetto ed hai già tutta l'attenzione di cui hai bisogno. Ma io non sono uno scrittore, non sono sicuro di poterlo essere, ed attirare l'attenzione è una delle ultime cose che desidero. Mostrare chi sono, che cosa faccio con una penna in mano e perché non è un lavoro facile.

Parlare di se stessi, lo chiamano...

Fa male.

Comporta una grande fatica e il rischio di naufragare in fiumi di parole vane.

Io non voglio perdermi in discorsi che considero già di per sé inutili. Mi sembra uno spreco di tempo e di energia.

Sono sempre vissuto nell'ombra. Ecco, quella si che è qualcosa che conosco. Potrei dire di esser più capace nel descrivere tutte le varie sfumature di nero che un oggetto può assumere di notte, piuttosto che parlare o scrivere della mia vita. Eppure già dicendo questo ho iniziato a raccontare...

Che cosa strana! Sembra che basti così poco, eppure...

Ma no, lasciamo perdere...

Forse non è il caso di continuare.

Questo stupido diario è solo un'altra stupida idea. Che senso può avere poi? Non si insegna ad un bambino a non temere il buio chiudendolo in un armadio. Anche se non penso nemmeno che sia saggio lasciarlo dormire con la luce accesa, fosse anche quella del corridoio dall'altra parte dell'appartamento.

La continua presenza dei ricordi è la maledizione dell'essere umano. Per quanto si possa ignorarli, per quanto loro possano ignorare te, sei costruito intrecciando i loro fili con fili nuovi. E spesso, per colpa di tutto ciò, ti ritrovi intrappolato in una ragnatela fatale, dalla quale è difficile districarsi.

La vedova nera che ti fissa è pronta a divorarti. E non sai se effettivamente il ragno sia uno spettro di te stesso o di qualcun altro. E' lì. Vuole mangiarti.

E non puoi sottrarti.

Puoi lottare, questo si. Ma le catene che avrai ai polsi saranno sempre più dure da spezzare e la fuga diverrà una pura utopia.

Cercherai allora di scendere a patti. Di nuovo non saprai con chi. Se te stesso o chi ti è accanto. Avrai quasi l'impressione che i due fantasmi siano lo stesso organismo, lo stesso mostro. E finirai con il non accettare più né l'uno né l'altro.

Sarà dura allora continuare a combattere. E gettare la spugna può divenire la scelta più semplice e più facile.

Accettare le zanne che affondano vivacemente nella tua carne, sentire le mandibole masticare piano, il sangue che goccia lentamente dalla bocca.

La tua?

La sua?

Non lo sai. Non lo saprai mai. Perché in fondo è questo il gioco della vita: una grossa, smisurata forma di presa per i fondelli.

Allora ti guardi allo specchio ed inizi a dubitare, a chiederti chi sei e che cosa ne è stato di te.

Non esisti più.

Poi venite a dirmi che parlare di sé è semplice...


Non ho mai pensato granché a quelle che avrebbero potuto essere le conseguenze. Il semplice “qui ed ora” per me andava benissimo lo stesso.

Non mi sono mai fermato a guardare, soppesare, a discutere. Anche solo chiedere aiuto in certi momenti mi sembrava un’impresa talmente tanto irraggiungibile che accontentarsi di un “ottimo locale” era la via migliore.

Purtroppo però quando ti lasci vivere, la pallina che costituisce il tuo mondo finisce su un piano inclinato. E da lì a raggiungere il fondo il viaggio è molto breve.

Vivere di illusioni. Ecco cosa ho cercato di fare. Mi sono nascosto. Ho creato un universo completamente mio dove io, ed io soltanto, potevo avere accesso. Un universo fatto di realtà distorte, di mostri umani e cerchi sempre più stretti e soffocanti.


Odio quando mi sento dire che devo andare avanti, cercare di combattere e lottare. Non sono un pavido, ma mi sembra così lontano dalla mia portata. In realtà nessuno sa cosa significhi alzarsi la mattina ed affrontare una sfida con se stessi anche solo per guardarsi allo specchio. Una sfida già persa in partenza. E, allora, gareggiare e vincere che senso hanno?

L’ho fatto, certo. Arrendersi subito è da stupidi. Ci ho provato. E ogni volta l’ostacolo da superare diveniva sempre più grande e più difficile. Come un Everest irto di spine. Ho provato in ogni maniera. Con ogni mezzo a mia disposizione. Ma è stato tutto inutile. E, mentre la mia pallina amorfa scivolava sempre più sul suo piano inclinato, io precipitavo nell’occhio del ciclone, sempre più a fondo nell’ultimo girone dei dannati. Sempre più spaventato e più solo, perché nel buio è difficile distinguere chi ti è accanto e, pur di evitare di incappare nell’incubo, si preferisce il silenzio.

Il silenzio è la mia musica. Per anni ho provato a ricercare l’effetto del suo suono sul mio pianoforte. Ma invano. Allora ho provato a cercarlo per contrasto, opponendo al rumore di sottofondo della mia vita altro rumore. Ma non è lo stesso. E ora lo so. Ora conosco il valore del suono di una risata, di quelle che vengono dal cuore, dallo stesso luogo dove nascono i sogni, quelli belli e caldi che ti dispiace abbandonare al mattino.

Ho scoperto che gli incubi possono nascondere al loro interno un minimo di luce, un sottile bagliore celato, una stella solitaria, nascosta dietro una fitta coltre di nubi scure e dense. Non sempre siamo consapevoli di quella stella e, devo ammetterlo: la prima volta che la si vede è quasi…destabilizzante. Però lei è lì. E attende. Attende che tu te ne accorga, una volta per tutte.

Volendo la si potrebbe chiamare in molti modi diversi, si dice che dare il nome ad un qualcosa significhi farla propria. Per me è soltanto: luce.

Una parola semplice. Potente e calda.

Luce.

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