CAPITOLO 3
Ho sempre pensato a mia madre come ad un albatro
nella stia di una gallina: sbatteva le ali ovunque e pizzicava qualunque cosa
le capitasse a tiro, che fosse un chicco di grano o un pesce appena pescato,
non risparmiava nulla, neanche il suo pulcino. Con me lei era sempre stata
imprevedibile. Nei tre anni in cui vivemmo insieme non fu mai molto capace di
farmi comprendere cosa volesse davvero da me e spesso avevo quasi l’impressione
di irritarla.
Mi aveva portato via dalla casa di sua madre poco
dopo il parto. Era scappata, mi raccontò lo zio Jerry, perché non voleva più
vedere mio padre. Di lui, a parte questo, non sembrava sapere niente nessuno.
In un qualche oscuro modo o tutti tacevano sulle sue attività extraconiugali,
favorendo l’omertà, o davvero era molto bravo a non farsi scoprire. Non so ben
decidere per quale opzione optare. Ma non è questo che importa e non voglio
parlarne ora. Mia madre mi portò via, questo era il fatto. E portandomi via era
stato come se avesse rifiutato di netto e completamente tutto l’aiuto che sua
madre si era, a malincuore, offerta di darle, accattivandosi, di conseguenza,
la sua più completa indifferenza. La nonna era una persona troppo orgogliosa
per concedere una terza opportunità. E mia madre aveva rigettato la seconda.
Così vivemmo nei posti più disparati, mi dissero.
Per un po’ a casa di un’amica, poi in un garage molto poco pulito ed infine lì,
in quel maledettissimo ostello per senzatetto, dove dividevamo la stanza con
altre sei o sette persone e dove i bambini non sembravano esser visti molto di
buon occhio perché piangono, suppongo. Non lo so.
In quel periodo mia madre lavorava. Per mantenersi
e per mantenermi, rimproverava. Ma non ho mai capito che mestiere facesse.
Forse la cameriera in un bar, forse la spogliarellista in un night, chi poteva
dirlo? Ero troppo piccolo per approfondire la cosa ed ora tutto, o quasi, ha
perso la sua importanza. Quando lei non c’era io venivo ballonzolato da una
persona all’altra, come un pacco postale, oppure restavo semplicemente “a casa”,
solo, in mezzo a tanti sconosciuti.
Quando lo zio mi raccontò questo per la prima volta
si irrigidì e puntò i pugni. Sicuramente giudicava la cosa poco responsabile.
Per me invece tutto questo non aveva senso, almeno di quel periodo non ho alcun
ricordo…
Fu proprio lavorando che mia madre conobbe Little
Back, il leader capellone delle Acid Balls, o palle acide, se si
preferisce. Forse si piacquero, sicuramente si frequentarono, perché ho un vago
ricordo di lui, di una o due volte che venne a prendermi all’asilo. Il tipo
d’uomo di cui solo mia madre avrebbe mai potuto innamorarsi e che a me incuteva
solo paura ed un forte senso di instabilità. Lui le parlò del suo gruppo, della
musica rock che intendeva portare nelle piazze del mondo, dei suoi sogni di
gloria e di quando, un giorno, probabilmente, avrebbe posato le mani sulla Walk
of Fame, accanto a quelle di Elvis Preasley o Frank Sinatra. Una serie di
stronzate cui però mia madre credette, abboccando come un pesce all’amo ed
ingoiando qualsiasi cosa lui le dicesse o le desse. Si convinse che avrebbe
potuto essere la sua groupy, che avrebbe potuto essere la donna di una rock
star, che avrebbe potuto girovagare per il mondo accanto a lui, vivendo della
sua musica e del suo “talento”. Sognava che un giorno il suo Little Back
l’avrebbe portata a Parigi, a fare una bella promenade sulle rive della Senna,
o a Roma a vedere i fori romani, per non parlare poi di Tokyo o di Londra.
Voleva vedere il mondo mia madre. Le piaceva pensare che lui potesse finalmente
essere il suo principe azzurro, così, quando lui le domandò se volesse
seguirlo, aveva preso la decisione della sua vita e, con la scusa di voler
divenire responsabile delle proprie scelte, aveva fatto armi e bagagli e
scaricato me dalla nonna.
Fu l’ultima volta che la vidi, quel giorno.
Poi, in seguito, provai a digitare le parole Little
Back e Acid Balls su google, ma non trovai niente. Evidentemente, con nomi del
genere, nessun discografico si era azzardato ad investire sul principe
azzurro.
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