domenica 18 marzo 2012

REVENGER


Prologo:

<<Stufati e torte con il frak>>



Sam non era convinto di come fossero le sue mani. Le guardò per un attimo, seguì con gli occhi la loro linea ossuta e sottile, poi prese la gomma cancellò le dita dalle nocche in su. Sbuffò. Così non andava. Riprese la matita e ricominciò da capo. Poi sollevò il foglio, lo fissò in tralice, inclinando la testa leggermente a destra e socchiudendo lievemente gli occhi. Lo allontanò, poi lo riavvicinò.

Si sussurrò il nome per convincersi della sua esattezza.

Mr Eye…Mr Eye…

Chissà perché gli era saltata in mente quella idea. Forse era tutta colpa dello stufato. Forse gli era rimasto nello stomaco.

Sbuffò ancora.

Cazzo, per una volta che si era sentito di essere sulla strada giusta, perché tanti dubbi?

Inforcò gli occhiali ed avvicinò ancora di più il foglio alla finestra. Disegnò da capo le mani.

Mr Eye…Mr Eye…

Pigiò con la matita sulle labbra.

Perché non parli? Si disse. Ma non si rispose.

Stupido pagliaccio…

Poi iniziò a colorare. 

No, non andava. Decisamente non andava.

Cancellò di nuovo qualche particolare. Lo ridisegnò. Poi inserì una scena. Un cavallo. No, non un cavallo normale. Mr Eye non poteva avere un cavallo vero.

Una giostra! Uno di quelli tipo Mary Poppins, che girano, girano, con quella musichetta sciocca di sottofondo.

Un Re Matto su una giostra per bambini.

Mr Eye…

-Sam…?-.

Per un attimo gli parve quasi di aver sentito dire il suo nome. Sam fissò ancora il foglio, poi ridefinì la bocca. Tracciò qualche screpolatura sul cavallo e decorò i finimenti. Lo sfondo grigio chiaro e scuro. A righe dritte, dall’alto al basso.

-Sam…?-.

Di nuovo declinò la testa. Ancora una volta.

Ecco, ora era soddisfatto.

Mr Eye…

Si, gli piaceva.

Pensò che per Revenger avrebbe dovuto creare un cattivo esemplare. Eppure Mr Eye non sembrava così crudele e spietato. E se il cattivo fosse stato proprio lui?

La luce nella sua stanza si accese improvvisamente.

Samuel sorrise automaticamente: era già ora di cena.

Forse Revenger avrebbe scelto il male minore.

-Finalmente!-.

O forse non lo avrebbe fatto. In fondo perché scegliere il male minore?

Due braccia sottili si spinsero verso di lui e Samuel le sfiorò. Sistemò il disegno sul muro con una mano mentre con l’altra, la matita ancora intrappolata tra pollice, indice e medio, iniziò a calcolarne le misure.

Josephine, china alle sue spalle, lo fissava rapita. I suoi lunghi capelli scuri odoravano di minestra di verdure e uova sode. Ma c’era anche un vago profumo di biscotti che non sfuggì a suo figlio.

-Io non ti capisco- disse, quasi in un sussurro. Samuel si voltò nella sua direzione e la guardò negli occhi.

-Cosa?-.

Lei fece spallucce. Si rimise in piedi e, incrociando le braccia al petto, inclinò la testa verso destra, con aria contemplativa: -Non lo so. Sembrano tutti così tristi, Sam, come se soffrissero per qualche cosa-.

Vista in quel modo, in quella posizione ma con uno zinale calato sui fianchi, sembrava un allegro miscuglio di cultura e ruralità.

-Non è che sei triste anche tu piccolo?-.

Samuel appese il disegno con una puntina e raggiunse sua madre dall’altra parte della stanza. Imitandola, assunse perfettamente la sua stessa espressione e si prese qualche istante per riflettere. Poi, improvvisamente, scoppiò a ridere. L’afferrò di colpo e, cingendole la vita con un braccio, l’abbracciò quasi in una mossa di danza, come se da un momento all’altro qualcuno potesse dare avvio ad un elegante valzer.

-Perché dovrei essere triste?- domandò, strizzandole un occhio e lanciandole un bacio.

Josephine si fece piccola tra le sue braccia. E si lasciò stringere con forza. Improntò un sorriso a sua volta.

-Non lo so, tesoro, è che ultimamente…- si perse nelle parole. Non era mai stata brava a formulare discorsi così impegnativi. Con Samuel poi non ce n’era mai stato molto bisogno. Lui capiva sempre tutto, prima ancora che potesse pensarlo. Scosse la testa: -Non fa niente-.

Ma ormai era tardi.

Sam la spinse verso il muro e le bloccò ogni uscita con le braccia. Sorrideva ancora. Ammiccò.

-Dimmi tutto- borbottò, improntando un atteggiamento il più possibile autoritario e schietto.

Josephine scosse la testa e chiuse per un istante gli occhi. Sospirò: -Tutto bene, Sam, davvero-.

-Sicura?- la lasciò andare.

Lei annuì. Poi gli si gettò addosso e lo strinse forte.

-Ti voglio bene- gli sussurrò all’orecchio.

Samuel sorrise ancora: -Hai fatto i biscotti?- domandò poi, di punto in bianco.

Josephine annuì. Aveva cucinato tutto il pomeriggio per quella sera e quasi se ne stava dimenticando. Le succedeva spesso. Le era sempre accaduto, fin da piccola. Era fatta così. Ma non era mai stato un problema.

Sam schioccò la lingua sul palato e si leccò le labbra.

-Andiamo, allora: ho fame-. Si avviò verso la porta e la spalancò per far uscire sua madre. Josephine accennò un lieve inchino per ringraziarlo. Era stato tutto un gioco. Solo uno stupido, sciocco gioco.

-Pensavo,- disse infine, mentre scendevano velocemente le scale per il soggiorno –sarebbe carino se una volta tanto decorassi con i tuoi disegni il mio ricettario. Immagina che carino che potrebbe essere: potresti creare un fumetto di stufati e torte con il frak!-.

lunedì 5 marzo 2012

La nascita di un poeta _ Patrick Galvin

CANZONE
PER UN POVERO RAGAZZO


Ricordo il principio.
Le pareti rosee e ambrate della pancia di mia madre e poi la luce fioca.
La stanza era grigia. E le mie parole, mentre venivo espulso in questo mondo, furono: "Ritornerò!".
Quando mio padre venne informato di questa dichiarazione piuttosto inattesa da parte di un bimbo ancora attaccato al cordone ombelicale, disse: "Questo ragazzo sarà un poeta".
Mio padre non sapeva che lo ero già.
Mentre me ne stavo nel confortevole grembo materno, avevo già scritto alcune delle poesie in lingua inglese, per non parlare di quelle in greco e in latino. Mia madre non era consapevole di tutta quell'attività che si svolgeva nel suo corpo. Se l'avesse saputo, non avrebbe avuto così fretta di darmi alla luce.
Mia madre rispettava i poeti. Sapeva che avevano bisogno di calore, di tenerezza e di comprensione e sapeva che quelle erano cose che sarebbero scarseggiate in Margaret Street.
…Guardai mio padre e mi strinsi forte a mia madre. Il suo respiro era caldo. La sua bocca era delicata e, nonostante i rimpianti, sentii che ci sarebbero state delle compensazioni. Tanto per dirne una, sarei stato allattato al seno, e per anni. I poeti ci guadagnano con l'allattamento al seno. La nostra letteratura deve molto a questa pratica.
Mi feci più vicino.
Mi vedevo scrivere poesie sull'allattamento al seno e dedicarle a tutte le mamme del mondo.
Morsi forte e mi presi subito una pacca sul sedere.
La sculacciata mi provocò un'amnesia.
Dimenticai di essere un poeta e mi ci vollero ventitré anni per riscoprire la mia vera vocazione.

domenica 4 marzo 2012

Il mio dono più grande








CAPITOLO 3





Ho sempre pensato a mia madre come ad un albatro nella stia di una gallina: sbatteva le ali ovunque e pizzicava qualunque cosa le capitasse a tiro, che fosse un chicco di grano o un pesce appena pescato, non risparmiava nulla, neanche il suo pulcino. Con me lei era sempre stata imprevedibile. Nei tre anni in cui vivemmo insieme non fu mai molto capace di farmi comprendere cosa volesse davvero da me e spesso avevo quasi l’impressione di irritarla.

Mi aveva portato via dalla casa di sua madre poco dopo il parto. Era scappata, mi raccontò lo zio Jerry, perché non voleva più vedere mio padre. Di lui, a parte questo, non sembrava sapere niente nessuno. In un qualche oscuro modo o tutti tacevano sulle sue attività extraconiugali, favorendo l’omertà, o davvero era molto bravo a non farsi scoprire. Non so ben decidere per quale opzione optare. Ma non è questo che importa e non voglio parlarne ora. Mia madre mi portò via, questo era il fatto. E portandomi via era stato come se avesse rifiutato di netto e completamente tutto l’aiuto che sua madre si era, a malincuore, offerta di darle, accattivandosi, di conseguenza, la sua più completa indifferenza. La nonna era una persona troppo orgogliosa per concedere una terza opportunità. E mia madre aveva rigettato la seconda.

Così vivemmo nei posti più disparati, mi dissero. Per un po’ a casa di un’amica, poi in un garage molto poco pulito ed infine lì, in quel maledettissimo ostello per senzatetto, dove dividevamo la stanza con altre sei o sette persone e dove i bambini non sembravano esser visti molto di buon occhio perché piangono, suppongo. Non lo so.

In quel periodo mia madre lavorava. Per mantenersi e per mantenermi, rimproverava. Ma non ho mai capito che mestiere facesse. Forse la cameriera in un bar, forse la spogliarellista in un night, chi poteva dirlo? Ero troppo piccolo per approfondire la cosa ed ora tutto, o quasi, ha perso la sua importanza. Quando lei non c’era io venivo ballonzolato da una persona all’altra, come un pacco postale, oppure restavo semplicemente “a casa”, solo, in mezzo a tanti sconosciuti.

Quando lo zio mi raccontò questo per la prima volta si irrigidì e puntò i pugni. Sicuramente giudicava la cosa poco responsabile. Per me invece tutto questo non aveva senso, almeno di quel periodo non ho alcun ricordo… 

Fu proprio lavorando che mia madre conobbe Little Back, il leader capellone delle Acid Balls, o palle acide, se si preferisce. Forse si piacquero, sicuramente si frequentarono, perché ho un vago ricordo di lui, di una o due volte che venne a prendermi all’asilo. Il tipo d’uomo di cui solo mia madre avrebbe mai potuto innamorarsi e che a me incuteva solo paura ed un forte senso di instabilità. Lui le parlò del suo gruppo, della musica rock che intendeva portare nelle piazze del mondo, dei suoi sogni di gloria e di quando, un giorno, probabilmente, avrebbe posato le mani sulla Walk of Fame, accanto a quelle di Elvis Preasley o Frank Sinatra. Una serie di stronzate cui però mia madre credette, abboccando come un pesce all’amo ed ingoiando qualsiasi cosa lui le dicesse o le desse. Si convinse che avrebbe potuto essere la sua groupy, che avrebbe potuto essere la donna di una rock star, che avrebbe potuto girovagare per il mondo accanto a lui, vivendo della sua musica e del suo “talento”. Sognava che un giorno il suo Little Back l’avrebbe portata a Parigi, a fare una bella promenade sulle rive della Senna, o a Roma a vedere i fori romani, per non parlare poi di Tokyo o di Londra. Voleva vedere il mondo mia madre. Le piaceva pensare che lui potesse finalmente essere il suo principe azzurro, così, quando lui le domandò se volesse seguirlo, aveva preso la decisione della sua vita e, con la scusa di voler divenire responsabile delle proprie scelte, aveva fatto armi e bagagli e scaricato me dalla nonna.

Fu l’ultima volta che la vidi, quel giorno.

Poi, in seguito, provai a digitare le parole Little Back e Acid Balls su google, ma non trovai niente. Evidentemente, con nomi del genere, nessun discografico si era azzardato ad investire sul principe azzurro. 

Il mio dono più grande








CAPITOLO 2





A casa della nonna, in un angolo del salotto, tra la libreria dei classici ed un vecchio grammofono, c’era qualcosa che non avevo mai visto prima d’ora. Un oggetto strano, con una forma strana. Un oggetto che mia nonna usava come espositore per i suoi bonsai e per le rose del giardino, ma che un espositore non era davvero.

Avvicinandomi scorsi una serie di due colori alternarsi nella parte anteriore. Uno sgabello, sotto le gambe davanti, rivestito con un morbido cuscino di velluto rosso e oro. Lo zio lo tirò verso di me e mi ci mise in piedi sopra, poi mi guardò stupito, come se si aspettasse che dicessi qualcosa. Ma non aprii bocca.

-Ti piace?- mi sorrise e si sedette accanto a me. Mi cinse la vita con un braccio e mi fece sedere sulle sue gambe.

Io passavo con lo sguardo da lui allo strumento e viceversa, indeciso se tenermi per me la mia curiosità o cercare in qualche modo di condividerla. Quella cosa mi attirava da una parte e mi spaventava dall’altra. Era così grande, così misteriosa.

Mi sentii trasportare verso di essa e, senza pensare, allungai una mano per toccarla. La cosa gemette. Io mi spaventai e mi ritrassi.

Lo zio scoppiò a ridere.

-Lo sai che cos’è?- mi domandò. Io scossi la testa vigorosamente. Lui lo sapeva? Era bello quel tavolo, mi piaceva.  Ma avevo anche paura. Perché parlava?

Lo zio sorrise ancora e si chinò verso il mio orecchio: -Ora ti faccio vedere a che cosa serve- sussurrò lentamente, le sue labbra sfioravano delicatamente la pelle della mia guancia. Poggiò la mano destra sui tasti bianchi e li toccò alternativamente, senza un ordine preciso, producendo così una musichetta strana, che riconobbi subito: era la sigla di un cartone animato che avevo visto già, ma di cui non ricordo il titolo.

Non avrei mai pensato che un tavolo potesse suonare! Perché lo faceva? Guardai lo zio, poi ancora il tavolo e di nuovo lo zio. Volevo che lo facesse ancora, ma non osavo dirglielo. E se si fosse arrabbiato? Ma lo zio non si arrabbiava mai. Suonò ancora e lo fece senza che dicessi nulla.

-Bello, vero?- mugugnò, poi prese la mia mano tra la sua e tenendomi l’indice mi guidò a premere i tasti giusti. Il tavolo iniziò suonare anche con me, quasi obbedendo ad una volontà suprema. Era grandioso!

Ripetemmo la stessa musichetta di prima. Una volta, due, tre. Alla quarta la improntai da solo, istintivamente, mentre lui, distratto da mia madre e da mia nonna, guardava indietro, verso di loro. Non se ne accorse e non disse nulla. Il suo volto si era fatto scuro e teso.

Mamma e nonna avevano ripreso a litigare, più aggressivamente di prima. Le loro voci provenivano dall’altra parte della casa ed erano molto alte ed aggressive. Mi spaventavano. Io non capivo. Perché i grandi gridavano sempre? Mi sentii sollevare e rimettere in piedi sopra lo sgabello del pianoforte.

-Torno subito, piccolo-.

Lo zio mi baciò sui capelli, poi si allontanò per un istante da me. Forse anche lui aveva paura. Ma perché allora mi lasciava lì?

Non volevo.

No.

Non poteva abbandonarmi così.

Mi sentii sprofondare nell’angoscia. Ero solo. E il pianoforte non suonava più. Provai ad improntare di nuovo la musichetta dello zio, per consolarmi, forse sperando che questo richiamasse l’attenzione degli altri, ma suonò distorta, quasi macabra, in un modo terribile e spaventoso.

Mi allontanai di scatto e per poco non caddi all’indietro.

Che potevo fare?

Forse sarebbe tornato tutto a posto da solo, automaticamente. Forse. Ma che significava esattamente “tutto a posto”? E quando le cose stavano davvero “a posto”? Mamma e nonna continuavano a litigare, sembravano non averne mai abbastanza ed erano arrabbiate. Si urlavano addosso, si insultavano, sbraitavano e piangevano contemporaneamente, potevo sentirle dal salotto. Per che cosa discutevano poi? Mia madre voleva partire in tournée con un gruppo rock emergente, il gruppo del suo nuovo ragazzo, lasciando me a casa dalla nonna. Quindi era colpa mia?

Cercai lo zio con lo sguardo. Forse lui sapeva cosa fare, forse lui sapeva come farle smettere. Lui era…”bravo”, si. Più “bravo” di me. Però non c’era. Non c’era nessuno. Così scesi dallo sgabello e mi avventurai verso la stanza da dove provenivano le voci. Mi intrufolai dietro la porta senza fare rumore, nella speranza che accorgendosi di me avessero smesso, nella speranza che capissero che volevo mettere le cose a posto. Ma ebbi improvvisamente paura e mi nascosi dietro la tenda.

Mamma singhiozzava e sembrava sfinita. Prese una sedia e si accasciò su di essa come dopo una lunga giornata di lavoro e poggiò la fronte sulle mani.

-Che devo fare?- frignò, alzando le braccia e riabbassandole quasi subito. Io mi nascosi ancora di più dietro alla tenda. Quando diceva quella cosa sembrava sempre cattiva, come quando mi guardava male, quando facevo qualche marachella, e mi chiedeva che cosa avrebbe dovuto fare con me. Poi mi sculacciava.

-È un’occasione che capita una sola volta nella vita!-.

-Dallo in adozione se vuoi fare la troia in giro!- le gridò contro la nonna -È un bel bambino, con un po’ di fortuna gli troveranno subito una famiglia-.

Così era questo che pensava la nonna di me: le sembravo un bel bambino. Ma non mi guardava. Non lo aveva mai fatto. Sbraitava agitando le mani e muovendosi a scatti. Faceva su e giù nella stanza. Mi terrorizzava. Ma non mi guardava.

-Darlo in adozione?- mia madre sembrava non capire. Fissava il vuoto davanti a sé e si asciugava le lacrime con l’orlo della gonna. Pensava davvero che partire con il gruppo sarebbe stata la cosa migliore per lei, avrebbero potuto sfondare nel mondo della musica. Ma la nonna era scettica al riguardo. Disse che non si poteva vivere di sola musica e, facendolo, si arrabbiò ancora di più. Pensava forse che si sarebbe presa cura lei di me? Ero un bastardo. Se c’era qualcuno che avrebbe dovuto badarmi avrebbe dovuto essere mio padre. Ma mio padre non c’era. Non c’era mai stato. Era un fantasma. Uno mai esistito.

Continuarono ad alzare la voce e la paura dentro di me crebbe a dismisura. Mi rannicchiai ancora di più nel mio piccolo mondo immaginario e mi tappai le orecchie, iniziando a dondolare avanti e indietro. Le emozioni sono sempre state un problema per me. Troppo intense. Troppo soffocanti.

Che significava bastardo? Mi chiesi. Che ero cattivo? Che era colpa mia? Avevo sentito pronunciare quella parola sempre verso qualcuno che aveva commesso una qualche cattiveria. Avevo fatto qualcosa di sbagliato anche io?

Mi avrebbero abbandonato, lo sentivo. Tutti lo avrebbero fatto, perché non meritavo il loro affetto, perché non ero nulla di buono e perché ero cattivo. Per questo mamma voleva lasciarmi con nonna e nonna non mi voleva. Io ero un bastardo.

O quasi.

-Danny?- la voce si intrufolò di nuovo nel mio mondo dell’invisibilità. Mi voltai e lo ritrovai di nuovo accanto a me.

Lo zio era tornato. Per me?

-Che ci fai di nuovo qui, piccoletto?- sorrideva. Sorrideva sempre e, quando lo faceva, la sua espressione diventava bella, rassicurante e accogliente. Allungò le braccia verso di me e mi attirò al petto, coprendomi subito la testa con la sua mano enorme. Sapeva che avevo paura e cercò di consolarmi. Io non parlavo, non potevo chiedergli come mettere a posto le cose, ma ci scambiammo un’occhiata e quella fu sufficiente. Fu come se mi avesse fatto una promessa.

-Adesso sistemiamo tutto-.

Poi mi baciò e mi coccolò per un po’ dietro alla tenda, al sicuro, nel nostro mondo immaginario.



<<Io ti chiesi perché i tuoi occhi
si soffermano nei miei

come una casta stella del cielo
in un oscuro flutto.
Mi hai guardato a lungo
come si saggia un bimbo con lo sguardo,
mi hai detto poi, con gentilezza:
ti voglio bene, perché sei tanto triste.>>



(Hermann Hesse)

sabato 3 marzo 2012

Il mio dono più grande













Cosa accadrebbe se volessi andare?

Ridendo in faccia alla vita,

lasciandomi alle spalle tutto ciò che è stato.

È possibile?

Se crollassi a terra,

senza più riuscire a respirare,

Cosa faresti tu?

Se volessi combattere?

Per tutto il resto della vita.

Cosa faresti?

Avevi detto che mi avresti dato di più.

È tutto ciò che sto aspettando.

Non sto scappando da te.

Non voglio farlo.



Lo zio diceva sempre che la poesia fa bene all’anima, che, per quanto tu possa non accorgertene, ti penetra dentro e la trascina fuori. È un viaggio verso una meta sconosciuta, eppure fin troppo frequentata. E per questo va rispettata. Trattata con dolcezza e delicatezza.

Ripeteva in continuazione che non esiste un lettore migliore di colui che sa andare oltre se stesso e, oltre se stesso, sa vedere e riconoscere le diverse sfumature dei versi.

Le parole per lui erano molto importanti.

Forse era per questo che parlava, parlava, parlava…



Ho chiuso con me stesso,

solo per lasciarmi lo spazio di un ultimo respiro.

Il tuo amore valeva questo.

Eccomi, dunque.

Su un piatto d’argento.

Avrei dovuto tentare ancora

Ma nulla sembrava in grado di cambiare.

Perché?

Ti sei mai domandato perché?



Avrebbe parlato per ore intere, per giorni interi. Con la sua solita voce calma, calda, tranquilla. Con quel tono assillante, melenso. Era il suo mestiere: incantare la gente con discorsi intricati. Avrebbe potuto vendere frigoriferi agli esquimesi, senza alcun problema. Gli bastava poco.

Un sorriso.



Ho perso me stesso cadendo,

non combattendo tutto ciò che hai voluto.

È stata tutta una bugia.

E così ho finito per piangere la mia disperazione.

Il mio dono più grande






CAPITOLO 1



<<Una finestra aperta sull’invisibile…>>



Sono sempre stato un buon osservatore. Forse perché prevenire le intenzioni degli altri, prima ancora che potessero agire, è sempre stato il modo migliore per nascondere me stesso. Per ritirarmi nell’ombra ed essere semplicemente invisibile. Un muto spettatore del mondo. Uno che non partecipa.

È stato così fin dall’inizio, fin dalla prima volta. Uno dei miei primi ricordi.

Mi ero infilato dietro una tenda. Una tenda pesante, rossa, come il sangue. E densa. Non ricordo bene che periodo fosse. Ma ho ancora in mente quelle grida confuse. Due donne. Una in lacrime, l’altra furiosa. Mia madre e mia nonna. E non riuscivo a capire chi delle due fosse chi o che cosa. Avevo paura. Quella paura intensa e morbosa che nasce da dentro e che non sai bene da cosa derivi perché in fondo non te ne rendi conto, non pensi, non ragioni. Sei piccolo. Il tuo mondo inizia e finisce con te.

Non capivo perché gridassero, perché la nonna fosse così irritata. Non mi aveva nemmeno mai visto. E continuava a non vedermi. Perché ero invisibile, chino su me stesso, rannicchiato con entrambe le braccia sopra la testa? Pensavo che se non le vedevo io, forse nemmeno loro vedevano me. Ma poi, alla fine, che senso poteva avere? Che ci fossi o meno, avrebbero continuato a litigare.

Mia nonna mi considerava uno stupido perché non parlavo. Mia madre…beh…lasciamo perdere…diciamo che il mio nascondiglio era ben azzeccato e che il mio potere era immenso. Grande. Come il cielo.

Mi sentivo al sicuro lì dietro. Al sicuro da me stesso e dagli altri. Chiunque fossimo. Era il mio piccolo mondo. E non mi aspettavo che qualcuno potesse volerci entrare. Non lo volevo.

Invece accadde. Rapido, invisibile. Come uno spettro.

Entrò sotto forma di macchinina. Una micro machine blu metallizzata con le portiere arancioni. Poi un peluche, un orsacchiotto rosa con un grosso bavaglino sulla pancia. Profumava di fragola. Iniziò a parlarmi. A canticchiare con una voce bassa e alquanto buffa. Una voce quasi lontana, irraggiungibile.

Io mi ritrassi contro il muro, lo guardai un po’ sulle mie. L’orso tacque per un attimo, la macchinina mi guizzò via da sotto gli occhi, spinta da non so che cosa. Per un attimo ebbi quasi l’impressione che mi stessero prendendo in giro. Poi la tenda si sollevò per un istante. Comparve la luce e scomparve velocemente. Una presenza si era materializzata improvvisamente accanto a me. Una camicia bianca, un odore diverso dal mio, che non sapeva nemmeno di fragola. O di bambino.

Qualcuno era entrato nella mia bolla di sapone. Silenziosamente. O forse c’era sempre stato? Era sempre stato lì, immobile, quasi immateriale, in attesa che me ne accorgessi? Che finalmente gli concedessi tutta la mia attenzione? Non sapevo. Sembrava uno spirito, un folletto con i capelli gialli, un essere soprannaturale. Forse ancora più potente di me. Mi guardava. Mi sorrise. Poi alzò la mano e fece uno strano cenno.

Ciao.

Il segno dei bambini.

La linguaccia.

Lo vidi strabuzzare gli occhi ed inclinare la testa tutta da un lato. Sapevo che il mio mondo gli andava troppo stretto perché i suoi piedi erano parzialmente rimasti dall’altra parte, oltre la tenda. Ma anche così, senza piedi, sembrava comunque simpatico e gentile.

Tirò fuori dal nulla una tazza di latte. Non una tazza normale, ma la più bella che avessi mai visto. A forma di clown, con dei palloncini in mano e gli occhi a forma di stelline.

-Un dono grande per un grande dono- sussurrò e me la porse. E rimase lì a guardare, a spiare, con le ginocchia sotto il mento e le braccia strette al petto. Muovendosi appena muoveva la tenda. E respirava delicatamente, immettendo a tratti uno spiraglio di luce pallida nel mio antro nero.

-È buono Damien?-.

Sapeva il mio nome. Allora forse era vero che fosse rimasto sempre con me, altrimenti non avrebbe potuto chiamarmi così, non avrebbe potuto…vedere…io ero invisibile!!!

Gli restituii la tazza.

Lui scosse la testa e disse che era mia. Sapeva che la desideravo, che avrei voluto sempre tenerla con me. La mia tazza a forma di clown con dei palloncini in mano e gli occhi a forma di stelline. Era un tesoro grande. Era il mio tesoro? Cercai conferma. E lui disse si. Non lo disse veramente. Ma fu come se lo avesse detto davvero. Era mia. Solo mia. Me la strinsi al petto. Guardai l’orso e la macchinina. Era tutto mio? La risposta fu di nuovo si.

Non potevo crederci. Dei giocattoli che non dovevo dividere con nessuno, con cui potevo dormire, potevo mangiare, forse potevo anche farci il bagno.

-Vogliamo uscire da qui?-. Era un prezzo da pagare per averli? Lui scosse la testa: -Sai? Ho un po’ paura del buio, io-. Aveva un sorriso convincente. Quasi materno. Ma era un maschio, però. Un papà?

Uno zio.

Lo. Zio.

Jeremy, il fratello di mia madre. Era lui lo spettro penetrato nel mio mondo, o forse creatovi dentro, l’unico essere umano in grado di abbattere il mio muro dell’invisibilità e a scorgermi, ovunque fossi.

Mi offrì la propria mano e mi incoraggiò ad oltrepassare la tenda. Era calda, grande e anche un po’ sudata. Avvolse la mia come un contenitore perfetto. Poi mi abbracciò forte e mi portò al petto, divenendo lui, così, il mio scudo dell’invisibilità.

O forse una finestra dall’invisibilità.

Il mio dono più grande


PARTE PRIMA:


"Borderline,
sulla linea di confine”



Una seconda opportunità…


Nell’incredibile scenario della mia vita poche sono le cose che ormai hanno il potere di stupirmi. Tra queste, un ricordo, un’immagine sfocata di una donna che spesso ricorre nei miei sogni e di cui io non ho nessun altra esperienza se non nell’immaginazione e nella foschia dorata che m’invade quando chiudo gli occhi. Accanto a lei, oltre le mie palpebre, ci sono una vecchia altalena dalla vernice gialla scrostata ed un bambino piccolo. Mi sorride, agita le braccia nella mia direzione come se in me riconoscesse qualcosa di familiare o vagamente conosciuto, poi mi corre incontro e si agita affinché io possa seguirlo e spingerlo sull’altalena. Ma io resto fermo, immobile, pietrificato all’esterno della bolla che ricopre il paesaggio, faccio parte di un’impalcatura fissa che non partecipa mai nulla. Nella mia testa non c’è più niente, solo il vuoto che mi circonda e che rende impenetrabile ogni minima sfaccettatura del mio essere e della mia sostanza.

Il bambino piange. Io cerco di tranquillizzarlo, gli chiedo di non scoraggiarsi, di ricacciare indietro le lacrime, ma anche le mie parole lentamente si perdono nello spazio infinito che c’è tra di noi. Allora desidero di raggiungerlo, di muovermi anche io per avvicinarlo e rabbonirlo, ma improvvisamente mi rendo conto che c’è qualcosa, dietro di me, che mi trattiene. Centinaia e centinaia di braccia rigide e fredde mi tengono stretto, ancorato all’impalcatura del mio sogno e non mi permettono di penetrarvi.

La donna si volta e prende a fissarmi.

Ed io mi agito, faccio di tutto per liberarmi, ma le braccia mi stringono ancora più forte, mi graffiano, mi tirano indietro verso un universo oscuro e malvagio da cui invano tento di sottrarmi, poi, lentamente, mi prendono lo stomaco e mi sento soffocare. Reprimo un grido, mi getto a terra. Davanti ai miei occhi, anche il bambino mi guarda spaventato, incuriosito, anche lui inerme, bloccato da un vetro invisibile. Vuole aiutarmi, vorrebbe farlo, ma non può. Guardo la donna, lei mi sorride incoraggiante. “Portalo via” urlo allora “portalo via”, poi tutto intorno a noi comincia a vorticare frenetico, una realtà stroboscopica che ruota nella mia mente e mi confonde.

Cala il buio.

Il bambino resta lì, continua a guardarmi, a fissarmi terrorizzato. Anche io sono terrorizzato e nei suoi occhi scorgo di rimando l’espressione dei miei occhi. “Vattene, vattene via…”, ma lui non si sposta. Nemmeno la donna lo fa, continua a sorridermi, continua ad osservarmi con tenera sincerità. Resta immobile, spettatrice del mio incubo, quasi come se il mio sogno si fosse trasformato nel sogno di qualcun altro e quello che credevo di vedere fosse in realtà soltanto il riflesso di quello che l’altro vedeva.

Mi sento sprofondare, sotto le mie gambe, il terreno si fa di fuoco e piano piano crolla, trascinandomi in basso con sé, dolcemente verso l’oblio. Cado nel vuoto, l’impalcatura si fa via via più rigida. Le braccia che mi trattengono iniziano a ferirmi. Urlo di nuovo. Nessuno può sentirmi. Nemmeno io riesco a scorgere nell’acuto mormorio del silenzio il suono stridulo della mia voce.

Sento gli occhi bruciare, le palpebre pesanti e nella bocca il sapore di sale. Continuo a cadere nel vuoto, le pareti del sogno continuano a vorticare rosse, gialle, verdi e blu. E cambiano, cambiano in continuazione forma ed intensità. Intorno a me inizio a vedere fantasmi di una vita che non mi sento più appartenere. Chi siete? Grido. Che cosa volete? Ma anche loro non mi sentono.

La morsa che mi soffoca mi stringe in un abbraccio spietato. Divincolarsi ormai è inutile e, mentre la donna ed il bambino divengono sempre più evanescente nell’irrealtà dell’incubo, dal sogno passo velocemente all’irreale realtà della mia vita.

E mi sveglio con il viso affondato nel cuscino.

Sconcertato, mi siedo velocemente sul letto. Mi guardo intorno. Ho come la sensazione che il mio corpo non riesca più a reagire alla mia volontà. Provo a mettermi in piedi, ma vengo assalito dalle vertigini e crollo in ginocchio sul tappeto. Come nel mio sogno. Di nuovo.

Lentamente poi, inizio a riconoscere i tratti più singolari e marcati della mia stanza. La scrivania con il computer, gli scaffali pieni di libri, l’armadio di compensato colorato poco distante dalla finestra.

Sono a casa. La mia nuova casa.

Mi tocco il viso e lo sento bagnato. Allora mi alzo lentamente e lentamente mi trascino verso il bagno, i piedi nudi che lasciano tracce sudate sul pavimento sotto di me. Busso piano, poi apro la porta e mi intrufolo dentro. Mi sento un fuggiasco, un ladro che penetra delicatamente in una casa e non sa in quale stanza recarsi. Mi avvicino al lavandino, mi appoggio su di esso facendo leva sulle braccia nude. Alzo gli occhi sullo specchio enorme davanti a me. Gli specchi mi mettono paura. Mi mettono in contatto con una parte di me che non mi piace, che voglio dimenticare.

Il vuoto del mio sguardo è la prima cosa che noto. Poi, il pallore del mio viso affiora delicatamente sulla superficie levigata. Non ho pianto. Sono solo sudato.

Il mio rapporto con l’estraneo che vedo dura molto poco. Non conosco quella persona. Non sono io e non riesco a fissarla per più di qualche istante. Allora, i muscoli del collo si rilassano ed il mento cade in avanti, verso il petto.

Apro il rubinetto dell’acqua fredda e bevo qualche sorso.

Alle mie spalle inizio ad avvertire il rumore sordo dei passi. Qualcuno si sta avvicinando.

Infilo quindi la testa sotto il getto fresco e mi bagno i capelli. Sono lunghi e non dovrei farlo, ma la sensazione della testa bagnata mi piace e non voglio farne a meno.

Il rumore di passi viene inghiottito da quello dell’acqua che scorre sulle mie orecchie. Qualcuno bussa alla porta. Mi raddrizzo e chiudo il rubinetto. Di nuovo, per una frazione di secondo, incrocio lo sguardo con l’estraneo fugace dall’altra parte del vetro, poi chiudo gli occhi e li riapro solo quando la mia mano è posata sulla maniglia della porta.

La apro.

Gli occhi preoccupati di Catherine scorrono velocemente sulla mia espressione, poi rovinano inevitabilmente sulle cicatrici che mi ricoprono le braccia. Le porto dietro la schiena per non darle maggiore imbarazzo. Mi sento arrossire.

-Tutto bene?- mi guarda con apprensione, con le pupille che si dilatano velocemente e le palpebre che sbattono per eliminare dalle ciglia gli ultimi residui del sonno che, con ogni probabilità, ho interrotto.

Ricambio la sua inquietudine con un sorriso. Poi annuisco: -Benone- le sussurro ed immediatamente la sua espressione si fa più distesa e rilassata, come se le avessi tolto un grosso peso dalle spalle.

Catherine è una donna meravigliosa. Si è offerta di accogliermi nella sua famiglia quando mi hanno dimesso dall’istituto e, da allora, non ha fatto altro che prendersi cura di me, viziandomi come un figlio ritrovato da poco e volendomi bene come pochi altri prima mi avevano voluto bene.

Finalmente mi sorride, lo stesso incoraggiante sorriso della donna nel mio sogno, ed allunga una mano verso il mio viso per accarezzarmi. Ma mi ritraggo. Un riflesso autonomo.

-Mi dispiace- la sento mormorare.

È delusa. Forse amareggiata.

Io mi sento un verme. Butto lì un “non importa” e scappo via,  verso la cucina, gli occhi bassi, rivolti al pavimento, nel tentativo di attenuare la rabbia che mi monta dentro.

Sbalzi d’umore: sono una componente innata della mia personalità. Ma ci sto lavorando.

Arrivo al tavolo e mi metto seduto. Cerco di tenere a bada il mio respiro e l’ansia crescente che mi assale. È in momenti come questi che sento ancora l’esigenza di farmi del male, di punirmi per il mio modo di comportarmi, per l’assurdo modo in cui liquido le persone, lasciandole così, come pesci imbalsamati davanti alle porte. Ma devo resistere. Stringere i denti e tenere duro. Di solito, se mi concentro abbastanza a lungo, sono in grado di dominare questi impulsi, ma ogni tanto vengo assalito dall’incredibile desiderio di mettermi a gridare, a strappare via qualunque sensazione possibile ed immaginabile. Ho bisogno di dolore. La mia vita se ne è impregnata talmente tanto e talmente a lungo da non poterne più fare a meno. È come tornare…a “casa”…

Chiudo gli occhi. Per un istante ho di nuovo l’impressione di rivedere la donna del mio sogno, ma è una sensazione fulminea che mi attraversa il cervello e subito scompare. Sospiro. Le mani mi formicolano e la pelle sembra tirare. Prendo un bel respiro e rimango in apnea per qualche secondo, concentrandomi sull’assenza di ossigeno in modo tale da far passare in secondo piano l’orribile desiderio di autolesionarmi che mi aggredisce. Poi espiro e ricomincio da capo.

Mentre resto senza fiato conto. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei…mi piacerebbe prendere delle lezioni di nuoto ed imparare a starmene sott’acqua per un periodo relativamente lungo. Mi fa sentire in pace. Sereno. Quando vivevo ancora con mio zio, spesso, facendomi il bagno, infilavo la testa nell’acqua e contavo il tempo che passava prima che i polmoni iniziassero a bruciare per il bisogno d’aria ed il mio corpo m’implorasse di riemergere e respirare. Ma non è lo stesso.

Inizio a rilassarmi. Rallento le apnee. Quando resto in questa posizione e respiro profondamente, ho quasi la sensazione che i miei sensi si acuiscano. I suoni, gli odori che provengono dall’esterno, sembrano quasi provenire da luoghi lontani, sconosciuti e non semplicemente dalla stanza in cui mi trovo, ed io mi diverto ad elaborarli come se questo fosse realmente possibile, come se in questo momento fossi in grado di percepire il rumore dell’erba che cresce nel prato del vicino o l’odore del tè che bolle in una pentola dall’altra parte del mondo. È così che, lentamente, i brutti pensieri se ne vanno e scivolano via dalla mia testa. Ed io con loro, finalmente tranquillo.

Di nuovo, sono dei passi a riportarmi al mondo reale.

Catherine si libra delicatamente nella cucina, passandomi accanto con la leggiadria e la leggerezza di una ballerina per andare a preparare il caffè. Non c’è bisogno che alzi la testa o che apra gli occhi per sapere che c’è lei a poca distanza da me. Mi basta sentire il suo profumo per esserne certo. Lo riconoscerei fra mille al mondo. Ma continuo ancora a sentirmi in colpa, so che lei sta facendo di tutto per ignorarmi perché capisce il mio stato di crisi, e voglio rendermi utile. Così riemergo dalla mia quiescenza e mi allontano dal tavolo per darle una mano.

Mi sento inerme, solo contro un mondo di altre persone che non conosco e con cui non voglio incrociare lo sguardo. Non ho la forza di parlare. Intorno a me ci sono una lunga serie di emozioni inespresse e di termini impronunciabili che ruotano e ruotano e sembrano non fermarsi mai. È come in quel gioco con i cigni colorati che scorrono su un tappeto circolare e tu, con una canna da pesca, devi afferrarne quanti più possibile per il collo per ricevere un regalo. Io allungo la mia canna di plastica, ma nessun cigno abbocca mai e non vinco nulla.

Mi alzo sulla punta dei piedi ed apro un’anta della credenza sopra la mia testa. Prendo una tazza, poi un’altra e le porto al tavolo. Chiudo lo sportello. Le dispongo su due tovagliette variopinte e avvicino loro due tovaglioli e due cucchiai. Mentre lo faccio, dentro di me mi sforzo di afferrare i cigni e fonderli insieme nel tentativo di creare una frase sufficientemente convincente per scusarmi.

Catherine intanto ha messo delle brioche a scaldare nel microonde. Il loro profumo mi penetra nelle narici e m’infonde un po’ di coraggio.

Riesco a catturare un cigno giallo, poi uno rosa.

-Catherine, io…- ma non sono ancora abbastanza. Lei lascia perdere per un po’ la colazione e si volta nella mia direzione. Ha gli occhi allegri e le guance sollevate in uno dei sorrisi più belli che abbia mai visto. Mi guarda in attesa che io dica qualcosa. Si poggia al pensile dietro di sé ed incrocia le braccia poco sotto il petto prominente: -Si?- mi chiede e di nuovo mi sento arrossire. Le braccia perdono consistenza e cadono lungo i fianchi. Abbasso la testa ancora una volta: -Vuoi dirmi qualcosa Damien?-. Si, io…ma la canna di plastica ha perso il suo magnetismo. Nessun pupazzo si lascia afferrare. Il tappeto circolare velocizza ancora di più la sua andatura. Le parole si allontanano vorticose dalla mia testa.

Inizio a balbettare qualcosa. Dio, è così umiliante. Sento la lingua ingrossarsi e muoversi a fatica tra i denti: -I…io…volevo…- basta, non ci riesco. Mi affido alla sua clemenza. Chiudo gli occhi e, lentamente, vedo scorrere delle immagini confuse. Immagini di un’altra casa, di un’altra cucina. C’è una persona diversa davanti a me, anche quella mi guarda immobile con le braccia intrecciate all’altezza del petto. Mi sorride,dice  qualcosa che non sento. Poi mi avvicina e le sue mani scorrono sulle mie spalle, sulla schiena, mi abbraccia.

-Damien?-.

Mi scuoto, cerco di non pensare e torno alla realtà. Catherine ha cambiato posizione, si è avvicinata anche lei. Sento le sue mani posarsi dove avevo visto le altre mani posarsi. La sua fronte si appresta alla mia, si appoggia delicatamente sulle le mie sopracciglia: -Sicuro che ti senti bene?-.

Io scuoto la testa, cerco di ricacciare i ricordi di una vita passata nel dimenticatoio da cui troppo spesso emergono, alzo gli occhi sui suoi ed impronto un timido si.

-Sto bene-. Mi sforzo di sorriderle.

-Forse hai solo fame-.

Il microonde scampanella.

Le brioche hanno invaso la casa con il profumo di confettura calda. Catherine le tira fuori dal forno e mi fa cenno di sedermi accanto a lei. Le mette in un piatto e le porta al centro del tavolo. Poi afferra latte, caffè e succo di frutta e li pone tra di noi.

-La colazione è il pasto più importante della giornata- annuncia, quasi meccanicamente, sedendosi a qualche centimetro da me ed agguantando un tovagliolo per portarselo alle ginocchia. Da quando sono qui non c’è mai stato un singolo giorno in cui non l’abbia detto –Credo che non ci sia niente di meglio di un buon caffè e una brioche per rimettere insieme i connotati dopo una bella dormita-. Mi mette un cornetto alla marmellata davanti e mi versa della spremuta d’arancia nella tazza. La mia preferita.

Mangiamo in silenzio.
Poi, una volta finito, mi alzo e rimetto a posto le stoviglie che ho sporcato.

venerdì 2 marzo 2012

Il mio dono più grande

Il mio dono più grande:




PROLOGO

Beh, ecco...io...non so di preciso da dove iniziare, forse non dovrei neppure farlo: cavolo la cosa non è neanche così urgente...

Avere un buon inizio, dicono, è tutto per uno scrittore. Un buon titolo, una frase ad effetto ed hai già tutta l'attenzione di cui hai bisogno. Ma io non sono uno scrittore, non sono sicuro di poterlo essere, ed attirare l'attenzione è una delle ultime cose che desidero. Mostrare chi sono, che cosa faccio con una penna in mano e perché non è un lavoro facile.

Parlare di se stessi, lo chiamano...

Fa male.

Comporta una grande fatica e il rischio di naufragare in fiumi di parole vane.

Io non voglio perdermi in discorsi che considero già di per sé inutili. Mi sembra uno spreco di tempo e di energia.

Sono sempre vissuto nell'ombra. Ecco, quella si che è qualcosa che conosco. Potrei dire di esser più capace nel descrivere tutte le varie sfumature di nero che un oggetto può assumere di notte, piuttosto che parlare o scrivere della mia vita. Eppure già dicendo questo ho iniziato a raccontare...

Che cosa strana! Sembra che basti così poco, eppure...

Ma no, lasciamo perdere...

Forse non è il caso di continuare.

Questo stupido diario è solo un'altra stupida idea. Che senso può avere poi? Non si insegna ad un bambino a non temere il buio chiudendolo in un armadio. Anche se non penso nemmeno che sia saggio lasciarlo dormire con la luce accesa, fosse anche quella del corridoio dall'altra parte dell'appartamento.

La continua presenza dei ricordi è la maledizione dell'essere umano. Per quanto si possa ignorarli, per quanto loro possano ignorare te, sei costruito intrecciando i loro fili con fili nuovi. E spesso, per colpa di tutto ciò, ti ritrovi intrappolato in una ragnatela fatale, dalla quale è difficile districarsi.

La vedova nera che ti fissa è pronta a divorarti. E non sai se effettivamente il ragno sia uno spettro di te stesso o di qualcun altro. E' lì. Vuole mangiarti.

E non puoi sottrarti.

Puoi lottare, questo si. Ma le catene che avrai ai polsi saranno sempre più dure da spezzare e la fuga diverrà una pura utopia.

Cercherai allora di scendere a patti. Di nuovo non saprai con chi. Se te stesso o chi ti è accanto. Avrai quasi l'impressione che i due fantasmi siano lo stesso organismo, lo stesso mostro. E finirai con il non accettare più né l'uno né l'altro.

Sarà dura allora continuare a combattere. E gettare la spugna può divenire la scelta più semplice e più facile.

Accettare le zanne che affondano vivacemente nella tua carne, sentire le mandibole masticare piano, il sangue che goccia lentamente dalla bocca.

La tua?

La sua?

Non lo sai. Non lo saprai mai. Perché in fondo è questo il gioco della vita: una grossa, smisurata forma di presa per i fondelli.

Allora ti guardi allo specchio ed inizi a dubitare, a chiederti chi sei e che cosa ne è stato di te.

Non esisti più.

Poi venite a dirmi che parlare di sé è semplice...


Non ho mai pensato granché a quelle che avrebbero potuto essere le conseguenze. Il semplice “qui ed ora” per me andava benissimo lo stesso.

Non mi sono mai fermato a guardare, soppesare, a discutere. Anche solo chiedere aiuto in certi momenti mi sembrava un’impresa talmente tanto irraggiungibile che accontentarsi di un “ottimo locale” era la via migliore.

Purtroppo però quando ti lasci vivere, la pallina che costituisce il tuo mondo finisce su un piano inclinato. E da lì a raggiungere il fondo il viaggio è molto breve.

Vivere di illusioni. Ecco cosa ho cercato di fare. Mi sono nascosto. Ho creato un universo completamente mio dove io, ed io soltanto, potevo avere accesso. Un universo fatto di realtà distorte, di mostri umani e cerchi sempre più stretti e soffocanti.


Odio quando mi sento dire che devo andare avanti, cercare di combattere e lottare. Non sono un pavido, ma mi sembra così lontano dalla mia portata. In realtà nessuno sa cosa significhi alzarsi la mattina ed affrontare una sfida con se stessi anche solo per guardarsi allo specchio. Una sfida già persa in partenza. E, allora, gareggiare e vincere che senso hanno?

L’ho fatto, certo. Arrendersi subito è da stupidi. Ci ho provato. E ogni volta l’ostacolo da superare diveniva sempre più grande e più difficile. Come un Everest irto di spine. Ho provato in ogni maniera. Con ogni mezzo a mia disposizione. Ma è stato tutto inutile. E, mentre la mia pallina amorfa scivolava sempre più sul suo piano inclinato, io precipitavo nell’occhio del ciclone, sempre più a fondo nell’ultimo girone dei dannati. Sempre più spaventato e più solo, perché nel buio è difficile distinguere chi ti è accanto e, pur di evitare di incappare nell’incubo, si preferisce il silenzio.

Il silenzio è la mia musica. Per anni ho provato a ricercare l’effetto del suo suono sul mio pianoforte. Ma invano. Allora ho provato a cercarlo per contrasto, opponendo al rumore di sottofondo della mia vita altro rumore. Ma non è lo stesso. E ora lo so. Ora conosco il valore del suono di una risata, di quelle che vengono dal cuore, dallo stesso luogo dove nascono i sogni, quelli belli e caldi che ti dispiace abbandonare al mattino.

Ho scoperto che gli incubi possono nascondere al loro interno un minimo di luce, un sottile bagliore celato, una stella solitaria, nascosta dietro una fitta coltre di nubi scure e dense. Non sempre siamo consapevoli di quella stella e, devo ammetterlo: la prima volta che la si vede è quasi…destabilizzante. Però lei è lì. E attende. Attende che tu te ne accorga, una volta per tutte.

Volendo la si potrebbe chiamare in molti modi diversi, si dice che dare il nome ad un qualcosa significhi farla propria. Per me è soltanto: luce.

Una parola semplice. Potente e calda.

Luce.